L'arcipelago delle nuvole

La prima volta ad Amatrice ci vai per un'amatriciana, ovvio. Succede che nella tua locanda una materna cameriera con chignon ti sussurri un confidenziale "che je porto", sapendo perfettamente la risposta, e poi ti serva con cura d'altri tempi, sotto una gigantografia di Bartali e Coppi autografata dal primo. A me capita di avere accanto un tavolo con due poliziotti e un altro con tre operai in tuta. La gente parla a bassa voce, ha un'amabilità speciale. Del tipo: "Che li vole i pomodorini gratinati? Sò boni". Quando esco, la cameriera mi rincorre con la minerale non bevuta, perché "nun se sa mai", in viaggio "pò servì". Bella Italia.



C'è neve sui selvaggi Monti della Laga, arcane piramidi di Cheope. Campotosto è tetro sotto le nubi, il lago accentua la sua tristezza idroelettrica, pare un fiordo norvegese. Per strada poca gente, e quella poca con facce dure, da Erzegovina in guerra. Ogni tanto, gruppi di cani per niente rassicuranti. Gli enormi, bianchi pastori abbruzzesi, sono tutto sommato i meno pericolosi: basta che non ti avvicini al gregge e stan buoni. Peggio sono i randagi scuri di taglia media, con l'occhio da killer suonato. Adottano una casa - non importa se vuota - e la difendono da chiunque passa. In due mi azzannano i copertoni della Topo.
Non vorrei passare in bici da queste parti.
...
Al passo delle Capannelle la strada sembra perdere la direzione, smarrirsi in un mare di onde lunghe e irregolari. Poi, oltre un ultimo dosso, cominciano i pascoli, lisci e regolari come campi da golf. M'accorgo d'essere in quota, il viaggio assume una dimensione aeronautica. Nel '43, qui sopra, passò l'aereo di Otto Skorzeny, il tedesco che liberò Mussolini dall'esilio sul Gran Sasso. Ho la sensazione di essere su un dirigibile silenzioso. O forse su una nave in viaggio per altre latitudini. Le Alpi sono pilastri fermi, gli Appennini sono fluidi, un gregge che va, un arcipelago pellegrinante.

A Campo Imperatore nevica bagnato, la strada è deserta, nemmeno una luce. L'auto naviga con lunghe curve tra rotonde gobbe erbose. Difficile credere che mille metri più sotto, nella pancia del Re dell'Appennino, a metà del tunnel che lo buca e lo sconcia di cemento, ci sia un laboratorio di energia nucleare, quello di Zichichi e dei suoi apprendisti stregoni. Ma è proprio là che si celebra la sconfitta del nostro nemico numero uno, il rettilineo. Gli uomini che sparano elettroni alla velocità della luce, all'uscita dal bunker in galleria non possono girare a sinistra, ma solo a destra per via del senso unico. Per andare all'Aquila devono prima uscire sull'altro versante, poi tornare indietro e rifarsi il buco nero sotto il Gran Sasso. Che goduria.
...
Annotta, c'è un'ombra fradicia in mezzo alla strada. E' uno che ha bisogno di aiuto, si sbraccia nella neve marcia con una pila accesa in mano. Rallento, apro all'incontrario la vecchia portiera, chiedo se posso dare una mano solo per godermi lo smarrimento del naufrago di fronte al macinino sbucato dal tempo. Difatti, quello resta a bocca aperta, non osa mendicare aiuto a un tizio più bagnato di lui su un'auto più bisognosa della sua. Per un attimo si sente solo il ronzìo del parabrezza. Poi l'ombra imbacuccata spiega, ma solo per buona educazione, che gli è morta la batteria in una stradina poco sotto, e dentro l'auto c'è la sua ragazza, la quale sta "preoccupata assai".
Ignora, l'infedele, che la Topo, dovendo sopravvivere ai propri acciacchi, contiene un arsenale inimmaginabile di ricambi e ammenicoli di ogni tipo.

Figurarsi se manca l'occorrente per l'emergenza elettrica. "Ho i cavi - lo soccorro con noncuranza - non si preoccupi. Salga che andiamo a vedere". Si accomoda dubbioso sul sedile bagnato. Quando arriviamo, la ragazza si mette a urlare alla vista del trabiccolo. E' completamente pazza, si sente presa in giro. Lo insulta, lui la calma, inutilmente. Intanto realizzo il ponte con flemma britannica. L'umidità fa friggere i cavi, ma funziona. "Vedi quanto sei stronza", fa lui. Me ne vado che litigano ancora nella tempesta, col motore acceso.
...
Smette di piovere, la torre di Santo Stefano di Sessanio sbuca tra nubi sfilacciate. Ho telefonato per la cena a un posto che si chiama Ostello del Cavaliere, così, solo per quel nome da viaggio anni Cinquanta. Dall'altra parte del filo c'era una certa Rosina. Ma quando arrivo nel temporale, la porta è sbarrata. Nello spiazzo, solo cuccioli di pastore abruzzese che si rotolano felici nelle pozzanghere. Non posso aver sbagliato. Busso: niente. Suono, dopo un po' sento uno scalpiccìo. Apre una signora in tenuta da cuoca. Rosina. "Ah, siete voi!", s'illumina. "Accomodatevi, prego". Magnifico, ho superato un'altra frontiera, comincia il mondo del voi.

"Scusate, ma teniamo la porta chiusa per via del freddo". Dentro non è una casa, è una fortezza profumata d'arrosto. Piccole finestre, muri spessi. L'idea di veranda qui è inconcepibile. L'Abruzzo è costruito per la neve, è terra di scorte invernali. La credenza è piena di legumi d'ogni tipo e colore, farro, ceci, lenticchie, fagioli neri. Solo al bazar di Kabul, altra terra di pastori, ho trovato di meglio. Rosina è come una maga nell'antro fumigante di un alchimista. Depositaria di segrete formule, regna incontrastata sui fuochi e l'anima buia della casa. Le chiedo dove dormire. "Vai alla rocca di Calascio, c'è una coppia con cinque figli che ha camere e buona cucina. Si sta bene". Il "voi" è già diventato "tu".
...
Calascio, novanta abitanti e un consiglio comunale di nove. Lampeggia, il maniero della rocca che sovrasta il paese appare sull'orlo di una scarpata dantesca. Non so come arrivarci, al bar del paese una bruna dall'occhio ispanico m'istruisce sulla strada mentre cinque avventori maschi tacciono, in stato d'allerta. Quattro chilometri ancora. La strada s'arrampica nel crepuscolo verso ruderi battuti dal vento. Il forte è più vecchio dell'anno Mille, è Camelot e Golgota nello stesso tempo. O forse Mardin, la rocca turca aggrappata al cielo, alta sulla Mesopotamia senza fine. Di nuovo, sopra il mare di nubi che ribolle a valle, quell'impressione di galleggiare, stare a prua di un bastimento.

Susanna, la mamma-albergatrice-castellana, mi viene incontro nel buio per farmi strada tra rocce e muri sbrecciati. Il tempo di un bicchier di vino in locanda e a valle le nubi sono diventate un mare latteo, sotto il quale pulsano in trasparenza le luci dei villaggi. Sopra, in uno squarcio, la Luna. Lontano, le masse nere della Majella e del Sirente. Più in là, l'arcipelago sannitico, sulla linea dei terremoti. A Occidente, i Monti Marsicani oltre il Pucino, il lago che non c'è. "Sono qui da dodici anni - mormora Susanna - e il posto mi emoziona ancora". E' una regina d'inverno: non molla questo posto nemmeno con la neve.

"Ho conosciuto questa rocca anni fa, scendendo con gli sci da Campo Imperatore. Nevicava, nubi uscivano dalle finestre vuote, non c'era rimasto più nessuno. Ma la magia del luogo mi conquistò. Venire qui è stata la decisione più facile della mia vita. Eppure lasciavo Roma, la mia città, una famiglia agiata, un lavoro che mi piaceva, gli amici. Per scommettere su dei ruderi". Ora le pietre hanno ripreso vita, c'è le locanda, le stanze per gli ospiti sistemate nelle vecchie case restaurate, i bambini, qualche famiglia che torna, due comignoli che fumano. Sul selciato giocattoli, un secchio con malta e cazzuola.

Notte da piumino, cani che ululano verso Castel del Monte. Le cime galleggiano sullo strato di nubi, formano un perfetto arcipelago. Una somiglia a Curzola, un'altra a Mèleda, un'altra ancora a Brazza. Ma sì, l'Appennino è solo una Dalmazia senza il mare. Sognerò un transatlantico pieno di orchestrine, in viaggio tra neri promontori. L'epifania dei monti naviganti.

(12 agosto 2006)


Vai all'indice