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Giornalista in Iraq

Veri giornalisti anche in Rai, ma non si vedono in TV

di Alessandro Gaeta
domenica 2 gennaio 2005

Alcuni articoli tratti da teleblog.tv

Razzi contro gli italiani. Tregua finita?

17 Maggio 2004 - A Nassiriya la calma è durata molto poco. Dopo la ritirata dei miliziani di Al Sadr che nella notte tra domenica e lunedì erano stati bombardati dagli aerei americani, questa mattina all’alba il comando italiano che è ospitato all’interno della base americana di Tallil si è risvegliato al sibilo di due razzi Rpg. Niente danni perché i proiettili hanno esaurito la loro spinta prima di raggiungere tende e costruzioni dell’accampamento militare. Ma se mi ricordo bene è la prima volta che i miliziani si spingono così vicino alla base americana, apparentemente ben difesa. Lo diceva nella sua prima e unica telefonata a casa anche Matteo Vanzan, il lagunare colpito dai mortai domenica pomeriggio: “la situazione a Nassiriya è molto cambiata”. Tragicamente vero. Eppure la frase pronunciata a caldo dal padre appena ricevuta la notizia della morte del figlio è già stata archiviata: “questa non è più una missione di pace”. La frase che ha colpito tutte le persone comuni non ha aperto un gran dibattito sui giornali. A Camponogara il paese in provincia di Venezia dove il ragazzo viveva, oggi è stato il giorno dei solenni funerali: retorica tanta, polemiche nessuna anche se il sindaco lunedì aveva avvisato Fini -che oggi ha partecipato alle esequie- che il loro è un paese di pacifisti. Oggi la vicenda della seconda battaglia di Nassiriya si chiude con un dibattito in parlamento. Esito scontato: niente ritiro perché Bush ha promesso che entro la fine del mese l’Iraq avrà un governo “vero”. Formato da iracheni doc, scelti però dagli americani. La farsa tragica continua. Come continuerà il controllo militare sull’Iraq di americani e alleati. Mentre la rogna della ricostruzione peserà tutta sull’Onu che già rischia di arrivare con il fiatone al “passaggio dei poteri” del 30 giugno. La titubanza di Kofi Annan ad assumere un ruolo centrale in Iraq non è legata solo al presente ma soprattutto al passato. L’embargo, che in dodici anni ha portato il paese al collasso aveva la benedizione delle Nazioni Unite. L’accordo “Oil for food” che sottraeva agli iracheni i proventi del greggio nasce da risoluzioni delle Nazioni Unite. L’applicazione di divieti assurdi come quello di importare vaccini perché potevano essere utilizzati per realizzare armi chimiche, spettava alle Nazioni Unite. E anche la responsabilità dei bombardamenti del 1998 ricade in buona sostanza sul Palazzo di Vetro. Gli iracheni cacciarono gli ispettori dell’Onu ma a bombe cadute questi ultimi confidarono: dipendiamo dalle Nazioni Unite ma collaboriamo con la Cia. Fatti, non polemiche che pesano sulla vicenda irachena.

E’ un fallimento ma nessuno lo vuole ammettere

16 Maggio 2004 - I miei colleghi sono in salvo ma prima che a Nassiriya tornerà la calma molta acqua passerà sotto i ponti dell’Eufrate. Il racconto del salvataggio, avvenuto a più di ventiquattro ore dall’inizio dell’assedio e dopo una notte passata sotto il fuoco dei mortai, dà molto chiaramente il senso di quanto ormai gli italiani, a Nassiriya, non controllino più un bel nulla. Un’ora e mezza sotto il fuoco dei miliziani per percorrere dieci chilometri spiegano perché di notte i “nostri” non sono intervenuti a rinforzare le difese dell’autorità provvisoria: la città è in mano ai ribelli, punto. L’esercito del Mahdi non ha ancora la forza per chiuderla alle forze armate straniere, per dichiararla “liberata dall’occupazione nemica” ma i miliziani sono ormai in grado di creare grosse difficoltà alle pattuglie italiane che ad ogni angolo di strada possono essere colpite. Finora è andata bene, ma fino a quando? E comunque su quali basi gli italiani potranno intavolare una trattativa con i ribelli? In dieci mesi hanno creato un consenso su basi solide? Non mi sembra affatto. I militari hanno speso pochissimo per la ricostruzione e i progetti dell’Autorità Provvisoria non hanno cambiato il volto della città. Anche la democrazia è un utopia. A Nassiriya non si è ancora votato e il governatore nominato dagli americani sabato è stato preso a calci nel sedere dai ribelli, senza nemmeno sprecare una pallottola. E anche le condizioni del carcere, con il suo corollario di torture e maltrattamenti, la dicono lunga su quanto la provincia governata dagli italiani in dieci mesi non si sia avvicinata di un centimetro ai nostri standard. Quello che stupisce, vedendo la situazione irachena dall’Italia, dopo un mese trascorso a Nassiriya, come nessuno di quelli che contano si ponga una semplice domanda: ma che ci stiamo a fare laggiù? Il dibattito, tutto politico, schiva la questione centrale: gli aiuti umanitari (nove miliardi di vecchie lire spesi in dieci mesi dal nostro contingente) sono stati del tutto insufficienti a modificare le condizioni di vita della gente di Nassiriya e della sua provincia. Il pacifismo, per una volta, non c’entra nulla. E’ la missione italiana che è fallita. E, al di là delle appartenenze politiche, bisognerebbe prenderne atto. Solo dopo si potranno discutere i “se” e i “ma”.

L’Iraq brucia e l’Italia si scotta

7 Aprile 2004 - IN PARTENZA PER BAGHDAD. La situazione in Iraq peggiora di ora in ora. Ieri gli scontri di Nassiriya dove 12 bersaglieri sono rimasti feriti e 15 iracheni sono morti (tra i quali, sembra, anche donne e bambini). Oggi che nella città controllata dagli italiani regna una calma apparente, si apprende che attorno a Falluja, il centro ad ovest di Baghdad cuore della resistenza anti-americana, infuria una violenta battaglia. Da lunedì la città è circondata dagli americani che hanno chiuso anche l’autostrada che collega Baghdad al confine giordano che passa proprio attraverso Falluja. Questa mattina, l’inviato della televisione Al-Jazeera per un soffio non è stato colpito da un missile mentre era collegato in diretta con la sua emittente. Ha continuato a trasmettere accovacciato, riferendo che gli scontri tra miliziani e americani avvengono ormai casa per casa, anche nelle zone residenziali. Decine i morti tra i civili. Sempre Al-Jazeera riferisce di almeno un elicottero americano abbattuto ma bisogna dire che le informazioni riportate da questa televisione non sempre vengono confermate. Nella zona di Falluja abitano circa trecentomila persone. Scontri anche a Ramadi e al nord, nella città petrolifera di Kirkuk e soprattutto a Sadr City, il sobborgo di Baghdad dove abitano oltre un milione di sciiti. Dalla giornata di domenica si registrano 46 vittime civili, tra i quali anche bambini. Insomma alla vigilia della mia partenza per Baghdad l’Iraq brucia. E, del resto, perché non dovrebbe bruciare? Gli americani prima gettano benzina sul fuoco chiudendo un giornale sciita, la confessione musulmana maggioritaria non solo in Iraq ma in tutto l’islam, poi minacciano di arrestare il leader radicale Moqtada Sadr che sarà pure un’estremista ma è pur sempre il figlio di uno dei religiosi più importanti della storia recente irachena, ucciso nel 1999 da Saddam Hussein. E infine pretendono che tutti gli iracheni si sottomettano alla loro volontà con la scusa che sono lì per insegnare loro la democrazia. In un anno si sono giocati tutto il credito acquisito presso la popolazione irachena con la destituzione di Saddam Hussein. Dopo un anno sono ai ferri corti con la principale comunità religiosa e la ricostruzione del paese che loro dicono di portare avanti non si vede. La gente ha paura e i miei amici a Baghdad mi raccontano che i negozi tirano giù la saracinesca nel primissimo pomeriggio quando la città chiude per un coprifuoco spontaneo. Spero di smentirmi ma già mi aspetto che molti degli iracheni che ho conosciuto e che a settembre erano tutto sommato ottimisti sul futuro, hanno cambiato idea. Invece di migliorare la situazione va radicalizzandosi. A me tutto questo sembra pazzesco e soprattutto mi sembra pazzesco che l’Italia, storicamente molto saggia nei rapporti con il mondo arabo, si sia infilata in questa brutta avventura……

Ritorno in Iraq dove la guerra non è mai finita

2 Aprile 2004 - IN PARTENZA PER BAGHDAD. Non pensavo che l’occasione di riempire di nuovo il mio taccuino di guerra si realizzasse così presto. Ebbene si parte. Destinazione: Baghdad. Per fortuna questa volta al Tg1 hanno avuto il garbo di avvisarmi con quindici giorni di anticipo. Per una volta dovrei avere il tempo per prepararmi senza farmi venire il fiatone. E anche per prepararmi psicologicamente. Perché se è vero che fare l’inviato in zone difficili è l’essenza della professione di giornalista, è anche vero che siamo esseri umani. E prima di andarsi a ficcare in un luogo dove c’è chi non gradisce affatto la tua presenza, beh…. bisogna pensarci perbene. E, a proposito, brutto segnale quando tirano sui giornalisti. Qualcuno dirà: chi te lo fa fare? In parte ho già risposto: faccio il giornalista. E poi, se non ci fossero i giornalisti, tutta la questione irachena sarebbe ridotta ad uno sterile bollettino di guerra: oggi tot autobombe, tot americani morti, tot iracheni che non torneranno più a casa. Numeri che nascondono la realtà. La realtà di una guerra che non è mai finita. La gente irachena, coloro che non stanno né con i resistenti né con gli occupanti, soffre. E prima di dare giudizi, di parteggiare per gli uni o per gli altri, non bisogna perdere di vista loro: le vittime di questa spirale di violenza. E’ difficile perché anche il sistema dell’informazione, italiano e internazionale, ha le sue responsabilità. I media hanno innescato, raccontando le vicende irachena spesso in maniera acritica, un’altra diabolica spirale: l’attentato che diventa evento e l’evento che genera attentati. E così la vita quotidiana degli iracheni finisce inevitabilmente in secondo piano. Spezzare questa spirale non sarà facile. Ci proverò.

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