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Codice Libero - Capitolo 4

   

Processiamo Dio

Sebbene il rapporto con la madre fosse carico di tensione, Richard Stallman finirà per ereditare da lei un importante tratto caratteriale: la passione per le posizioni politiche progressiste.

Si tratta però di una caratteristica che impiegherà svariati decenni per emergere in superficie. Durante i primi anni della sua vita, Stallman si trovò in quello che oggi ammette essere un “vuoto politico”[15]. Come la maggioranza degli americani all’epoca di Eisenhower, la famiglia Stallman trascorse gli anni ’50 cercando di riconquistare quella normalità perduta negli anni della guerra.

“Io e il padre di Richard ci consideravamo democratici ma senza spingerci oltre”, spiega Alice Lippman, ricordando gli anni familiari passati nel Queens. “Non c’interessava granché la politica nazionale o locale.”

Tutto ciò prese a cambiare, tuttavia, sul finire degli anni ’50 quando Alice divorziò da Daniel Stallman. Il ritorno a Manhattan fu qualcosa di più che un semplice cambio d’indirizzo; rappresentò il sorgere di un’identità nuova e indipendente, oltre alla dolorosa perdita di tranquillità.

“Credo che il mio primo assaggio di attivismo politico fu quando andai alla biblioteca pubblica del Queens e scoprii che in tutti gli scaffali esisteva un solo volume sul divorzio”, ricorda la Lippman. “Si respirava la forte presenza della Chiesa Cattolica, almeno nell’area di Elmhurst dove vivevamo noi. Direi che fosse il primo sentore di quei poteri che controllano le nostre vite in maniera silenziosa.”

Tornando nel quartiere in cui era cresciuta, l’Upper West Side di Manhattan, rimase assai colpita dai cambiamenti avvenuti da quando se ne era andata, poco più di dieci anni prima, per frequentare l’Hunter College. La pressante domanda del dopoguerra per nuove abitazioni aveva trasformato il quartiere in un campo di battaglia politico. Da una parte c’erano consiglieri comunali e imprenditori che spingevano per lo sviluppo edilizio nella speranza di poter ricostruire gran parte dei vecchi edifici ove alloggiare il crescente numero di impiegati che inondavano la città. Sul fronte opposto stavano invece gli inquilini irlandesi e portoricani meno abbienti, i quali avevano scelto quel quartiere proprio per via degli affitti contenuti.

Inizialmente Alice Lippman non sapeva bene in quale delle due fazioni riconoscersi. Come nuovo residente aveva certamente bisogno di un alloggio moderno. Come madre sola dal basso reddito, tuttavia, condivideva le preoccupazioni dei residenti più poveri rispetto al crescente numero di progetti edilizi mirati principalmente a residenti benestanti. Indignata, cominciò a cercare i modi adatti per combattere quella macchina politica che stava cercando di trasformare il suo quartiere in un duplicato dell’Upper East Side.

Fu così che nel 1958 visitò per la prima volta la sezione locale del Partito Democratico. Cercando un asilo nido dove portare il figlio mentre lavorava, era rimasta terrificata dalle condizioni riscontrate in uno dei centri gestiti dalla municipalità per i residenti dal basso reddito. “Tutto quello che ricordo è l’odore di latte rancido, le stanze buie, la scarsità di cibo. Avevo insegnato in asili nido privati e c’era una differenza enorme. Demmo appena un’occhiata al posto e ce ne andammo. Ero scandalizzata.”

Purtroppo la visita a quella sezione di partito si rivelò deludente. Descrivendola come “la proverbiale stanza del fumo”, sostiene di essersi resa conto per la prima volta come fosse proprio la corruzione esistente all’interno del partito il motivo principale dell’ostilità, a malapena celata, delle autorità cittadine nei confronti dei residenti meno abbienti. Senza mai tornare in sezione, decise invece di aggregarsi ad uno dei numerosi gruppi la cui attività mirava a riformare il Partito Democratico onde liberarsi delle ultime vestigia della “Tammany Hall Machine”[16]. Riuniti sotto il Woodrow Wilson/FDR Reform Democratic Club, Lippman e gli altri attivisti iniziarono cosi a partecipare alle riunioni del consiglio comunale sullo sviluppo edilizio, chiedendo di poter avere voce in capitolo.

“Nostro obiettivo primario era l’opposizione a Tammany Hall, Carmine DeSapio e i loro compari”[17] ricorda Lippman. “Io fungevo da rappresentante presso il consiglio comunale ed ero molto coinvolta nella creazione di un progetto di rinnovo urbanistico sostenibile che andasse oltre la semplice aggiunta di alloggi di lusso nel quartiere.”

Un coinvolgimento che nei successivi anni ’60 sfociò in un attivismo politico di portata assai maggiore. Nel 1965 Lippman lavorò alacremente nelle campagne elettorali per il sostegno a candidati come William Fitts Ryan, parlamentare democratico eletto con l’aiuto dei gruppi di riforma e uno dei primi deputati statunitensi a intervenire pubblicamente contro la guerra in Vietnam.

Non ci volle molto perché anche Lippman manifestasse la propria opposizione all’intervento USA in Indocina. “Mi schierai contro la guerra in Vietnam fin dal momento in cui Kennedy inviò le truppe”, ricorda. “Leggevo gli articoli di reporter e giornalisti inviati a seguire le prime fasi del conflitto. Ritenevo del tutto azzeccate le loro previsioni secondo cui si sarebbe trasformato in un grande pasticcio.”

Un clima di dissenso che si respirava anche nella famiglia Stallman-Lippman. Nel 1967 Alice si risposò. Il suo nuovo marito, Maurice Lippman, maggiore della Air National Guard, rassegnò le sue dimissioni per dimostrare la sua opposizione alla guerra. Il figlio di Maurice Lippman, Andrew, studiava al MIT e in quanto studente poteva rinviare temporaneamente il servizio militare. Tuttavia la minaccia che tale rinvio potesse essere sospeso, come alla fine accadde, rese ancora più immediato il rischio di un ulteriore coinvolgimento bellico da parte degli Stati Uniti. C’era infine Richard che, sebbene più giovane, aveva davanti a sé la prospettiva di optare tra Vietnam o Canada quando la guerra continuò negli anni ’70.

“Il Vietnam era una faccenda importante in famiglia”, sostiene la Lippman. “Ne parlavamo in continuazione: cosa avremmo fatto nel caso la guerra fosse proseguita, quali i passi migliori per Richard o per il fratellastro se fossero stati chiamati alle armi. Eravamo davvero convinti fosse qualcosa d’immorale.”

Per Stallman, la guerra del Vietnam suscitava un miscuglio complesso di emozioni: confusione, orrore e in ultima analisi una profonda sensazione di impotenza politica. Nei panni di un ragazzo appena in grado di far fronte all’universo leggermente autoritario della scuola privata, Stallman tremava al solo pensiero di dover entrare in un campo di addestramento dell’esercito.

“Ero devastato dalla paura, ma non riuscivo a immaginare cosa fare e non avevo il coraggio di unirmi alle dimostrazioni di protesta”, rammenta Stallman, il cui compleanno del 18 marzo lo pose paurosamente a rischio nella lotteria per la chiamata di leva, quando nel 1971 il governo decise di cancellare i rinvii per motivi di studio. “Non mi vedevo scappar via in Canada o in Svezia. Ero terrorizzato dall’idea di dovermi alzare e fare qualcosa in prima persona. Avrei mai potuto farcela? Non sapevo vivere e mantenermi da solo. Non ero il tipo che si sente a proprio agio in una situazione simile.”

Quando gli altri della famiglia esprimevano le proprie opinioni in pubblico, Stallman ne rimaneva assai colpito ma provava anche vergogna. Ricordando un adesivo sul parafango della macchina del padre che equiparava il massacro di My Lai alle atrocità naziste della Seconda Guerra Mondiale, dice di essersi sentito “eccitato” per quel gesto d’oltraggio del padre. “Lo ammiravo per quell’azione”, dice Stallman. “Ma io non riuscivo a far nulla. Avevo paura che il Moloch della leva stesse per annientarmi.”

Nonostante queste descrizioni sull’incapacità personale a prendere posizione contengano un certa dose di rimpianto nostalgico, Stallman sostiene che alla fine rimase deluso dal tono e dalla direzione presi dal movimento contro la guerra. Al pari di altri studenti dello Science Honors Program, considerò quelle dimostrazioni di protesta nei weekend alla Columbia poco più di un distratto spettacolo[18]. In conclusione, ribadisce Stallman, divenne impossibile distinguere tra le forze irrazionali che guidavano il movimento contro la guerra e quelle, altrettanto irrazionali, alla guida del resto della cultura giovanile. Anziché adorare i Beatles, improvvisamente le coetanee di Stallman idolatravano dei tipi sputafuoco quali Abbie Hoffman e Jerry Rubin. Per un ragazzo già pieno di problemi nel comprendere i coetanei, slogan disimpegnati come “fate l’amore non la guerra”, contenevano messaggi ambigui. Non soltanto ciò serviva a rammentare che Stallman, l’asociale dai capelli a spazzola che odiava il rock’n’roll, detestava le droghe e non partecipava alle dimostrazioni nel campus, non comprendeva cosa stesse accadendo a livello politico; non lo “capiva” neppure sessualmente.

“La controcultura non mi ha mai colpito granché”, ammette oggi Stallman. “Quella musica non m’interessava, tantomeno le droghe. Avevo paura di quelle sostanze. Non mi andavano giù soprattutto l’anti-intellettualismo e i pregiudizi contro la tecnologia. In fondo, io amavo il computer. E non mi piaceva lo sciocco anti-americanismo in cui mi capitava spesso d’imbattermi. Qualcuno pensava in maniera talmente semplicistica che quell’opposizione alla condotta statunitense nella guerra in Vietnam dovesse comportare l’automatico appoggio al Vietnam del Nord. Suppongo che quella gente non riuscisse a immaginare una situazione più complessa.”

Simili commenti servono ad alleviare la sensazione di timidezza, ponendo altresì in evidenza un tratto che diverrà la chiave della maturazione politica di Stallman. Per quest’ultimo, la dimestichezza politica dev’essere direttamente proporzionale a quella personale. Nel 1970 Stallman aveva confidenza con pochi elementi oltre il regno della matematica e della scienza. Ciò nonostante, la familiarità con i numeri gli offrì le basi per esaminare il movimento contro la guerra in termini puramente logici. Lungo questo processo, Stallman trovò gli strumenti della logica particolarmente adeguati. Per quanto contrario all’intervento bellico in Vietnam, non vedeva motivo per rifiutare la guerra come mezzo atto a difendere la libertà o a correggere le ingiustizie. Tuttavia, anziché allargare il divario tra lui e i colleghi, Stallman decise di tenere per sé questo tipo di analisi.

Nel 1970, con la partenza per Harvard, si lasciò alle spalle le quotidiane conversazioni a cena sulla politica e sulla guerra in Vietnam. Col senno di poi Stallman descrive il passaggio dall’appartamento di sua madre a Manhattan alla vita nel dormitorio di Cambridge come una “fuga”. Ma gli amici che lo seguirono in quel passaggio notarono ben poco a sostegno della tesi per cui si trattasse di un’esperienza liberatoria.

“I suoi primi tempi ad Harvard sembravano piuttosto infelici”, ricorda Dan Chess, compagno di classe nello Science Honors Program e anch’egli matricola ad Harvard. “Era evidente come l’interazione umana gli risultasse davvero difficile, ma in quell’ambiente non c’era modo di evitarla. Harvard era un luogo intensamente sociale.”

Per facilitare la transizione, Stallman fece nuovamente affidamento sui suoi punti di forza, scienza e matematica. Come molti studenti provenienti dallo Science Honors Program, anche Stallman superò facilmente l’esame di ammissione per Math 55, il corso riservato alle matricole dotate in matematica, diventato leggendario per la sua difficoltà. Al suo interno, quanti provenivano dal programma della Columbia University formarono subito un'unità di ferro. “Eravamo la mafia della matematica”, dice Dan Chess con una risata. “Harvard valeva ben poco, almeno in paragone allo Science Honors Program.”

Prima di guadagnarsi il diritto a vantarsene, però, Stallman, Chess e gli ex studenti di quel programma, dovevano superare il corso di Math 55. Quest’ultimo condensava quattro anni di lezioni in appena due semestri, e mirava soltanto ai veri adepti. “Era un corso davvero incredibile”, sostiene David Harbater, ex aderente alla “mafia della matematica” e oggi professore della stessa materia presso la University of Pennsylvania. “È plausibile sostenere che non sia mai esistito un corso per matricole talmente intenso e avanzato. Quel che dicevo agli altri giusto per dare loro un’idea, era che tra le altre cose nel secondo trimestre discutevamo la geometria differenziale della varietà di Banach. A quel punto strabuzzavano gli occhi, perché generalmente tale geometria compariva dopo il secondo anno.”

Partito con 75 studenti, il corso si ridusse rapidamente a 20 nel secondo semestre. Di costoro, aggiunge Harbater, “soltanto 10 sapevano veramente cosa stavano facendo”. Otto di questi sarebbero divenuti a loro volta professori di matematica e uno avrebbe insegnato fisica. “L’ultimo rimasto”, sottolinea Harbater, “era Richard Stallman.”

Seth Breidbart, studente di Math 55, ricorda come anche in quell’ambito Stallman riuscisse a distinguersi dagli altri.

“Era pignolo, ma in modo strano”, dice Breidbart. “In matematica c’è una tecnica standard che tutti sbagliano. Si tratta di un uso errato della notazione, quando bisogna definire una funzione e quello che in realtà si fa è definire prima la funzione e poi dimostrare che è definita correttamente. Solo che, la prima voltà che si trovò a presentarla, egli definì una relazione dimostrando poi che è una funzione. È la stessa identica dimostrazione, ma in cui Stallman aveva utilizzato la terminologia corretta, cosa che non aveva fatto nessun altro. Questo per dire come era fatto.”

Fu durante il corso di Math 55 che Richard Stallman iniziò a coltivare la reputazione di studente brillante. Breidbart si dichiara d’accordo, ma secondo Chess, le cui ambizioni competitive rifiutarono di cedere il passo, Stallman non venne riconosciuto come il migliore in matematica fino all’anno successivo. “Avvenne durante il corso di Analisi Matematica”, spiega Chess, oggi professore di matematica presso l’Hunter College. “Ricordo una dimostrazione sui divisori a valori complessi dove Richard se ne uscì con un’idea che praticamente era una metafora del calcolo delle varianti. Era la prima volta che vedevo qualcuno risolvere un problema in maniera così brillante e originale.”

Per Chess fu un momento difficile. Come un uccello che, volando, finisce contro il vetro di una finestra lucida, gli ci volle un po’ per rendersi conto che questo livello di intuito era semplicemente fuori dalla sua portata.

“Questo per quanto riguarda la matematica”, sostiene Chess. “Non occorre un matematico di massimo grado per riconoscere un talento eccezionale. Ero cosciente di aver raggiunto un ottimo livello, ma sapevo anche di non potermi considerare un matematico eccelso.”

Per Stallman, i successi scolastici erano inversamente proporzionali a quelli nell’arena sociale. Perfino quando gli aderenti alla mafia della matematica si riunivano per risolvere insieme i problemi, Stallman preferiva lavorare da solo. Lo stesso dicasi per la sistemazione dell’alloggio. Nella richiesta per una stanza ad Harvard, non mancò di specificare le proprie esigenze. “Dissi che preferivo stare con qualcuno invisibile, inascoltabile, intangibile.” In un evento di rara perspicacia burocratica, i responsabili amministrativi accettarono quella richiesta, assegnando a Stallman una stanza da solo per quell’anno da matricola.

Breidbart, unico aderente alla mafia della matematica che alloggiasse nel dormitorio oltre a Stallman, segnala che quest’ultimo imparò ad interagire con gli altri studenti in maniera graduale ma sicura. Egli ricorda come gli altri residenti del dormitorio, colpiti dall’acume logico di Richard, presero ad apprezzare i suoi suggerimenti ogni volta che si dava vita a qualche tipo di discussione intellettuale in mensa o nelle sale comuni.

“Tenevamo le solite chiacchierate da bulli per risolvere i problemi del mondo o per capire quale sarebbe stato il risultato di una certa premessa”, rammenta Breidbart. “Supponiamo che qualcuno abbia scoperto il siero dell’immortalità. Cosa faresti? Quali le conseguenze politiche? Fornendolo a tutti, il mondo diventerebbe sovrappopolato, e moriremmo tutti. Se si impongono delle limitazioni, stabilendo ad esempio di darlo a chi è vivo oggi ma non ai propri figli, allora finiremmo per creare un ceto di persone inferiori, quelle private dell’accesso al siero. Richard era capace, in modo superiore agli altri, di immaginare le circostanze imprevedibili susseguenti a questo tipo di scenari.”

Stallman ricorda assai vividamente quelle discussioni. “Ero sempre a favore dell’immortalità”, sostiene. “Rimanevo colpito dal fatto che la maggior parte delle persone la considerasse una cosa negativa. In quale altro modo potremmo osservare i cambiamenti del mondo da qui a 200 anni?”

Pur affermandosi come eccelso matematico e sagace oratore, evitava le competizioni pubbliche che avrebbero sancito la sua brillante reputazione. In conclusione di quell’anno da matricola ad Harvard, Breidbart ricorda come Stallman schivò ripetutamente l’esame Putnam, un prestigioso test riservato agli studenti di matematica in USA e Canada. Oltre a fornire loro la possibilità di misurare le proprie conoscenze rispetto ad altri coetanei, quell’esame era considerato uno strumento per ottenere l’assunzione presso i vari dipartimenti accademici di matematica. Stando alle leggende del campus, il primo classificato avrebbe automaticamente ottenuto una borsa di studio per proseguire gli studi presso un istituto di propria scelta, incluso Harvard.

Come per il corso di Math 55, l’esame Putnam era brutalmente basato sulle capacità mentali. La sessione di sei ore divisa in due parti, sembrava esplicitamente progettata per eliminare ogni dubbio sui più bravi. Breidbart, veterano sia dello Science Honors Program sia del corso di Math 55, lo descrive tranquillamente come l’esame più difficile che abbia mai sostenuto. “Giusto per avere un’idea del livello di difficoltà”, spiega, “il punteggio massimo era 120, e nel primo anno il mio risultò intorno a 30, dimostrandosi comunque sufficiente per farmi piazzare al 101° posto nella classifica nazionale.”

Sorpreso del fatto che Stallman, il migliore della classe, avesse glissato su quel test, Breidbart ricorda che un giorno lui e gli altri lo costrinsero in un angolo e gli chiesero una spiegazione: “Replicò che temeva di non fare bella figura.”

Allora Breidbart e gli altri buttarono giù al volo alcuni problemi che ricordavano a memoria da quell’esame e li passarono a Stallman. “Li risolse tutti”, sostiene Breidbart, “portandomi a concludere che la sua idea di non fare bella figura significasse arrivare secondo oppure commettere qualche grossolano errore.”

Stallman rammenta l’episodio con qualche differenza. “Ricordo che effettivamente mi passarono dei problemi ed è possibile che li abbia risolti, ma sono quasi certo che non ce la feci con tutti”, sostiene. In ogni caso, Stallman è d’accordo con Breidbart sul fatto che non volle sostenere quell’esame essenzialmente per paura. Nonostante l’evidente volontà di mettere in luce la debolezza intellettuale di compagni e professori nel corso delle lezioni, Stallman odiava l’idea della competizione testa a testa.

“È lo stesso motivo per cui non mi è mai piaciuto giocare a scacchi”, aggiunge Stallman. “Ogni volta che ci provavo, ero talmente consumato dal terrore di sbagliare una sola mossa che cominciavo a fare stupidi errori fin dall’inizio. La paura divenne così una sorta di profezia autoreferenziale.”

Se poi la stessa paura vada ritenuta responsabile della decisione di scansare la carriera di matematico, è questione opinabile. Verso la conclusione del suo anno da matricola, Stallman scoprì altri interessi che finirono per allontanarlo da quell’ambiente. La programmazione al computer, il cui fascino latente lo aveva accompagnato negli anni delle medie, andava trasformandosi in una vera e propria passione. Laddove gli altri studenti di matematica trovavano occasionale rifugio in materie quali arte e storia, Stallman si rintanava nei laboratori d’informatica.

Il suo primo assaggio di programmazione, all’IBM Scientific Center di New York, ne aveva stimolato il desiderio di saperne di più. “Mentre si chiudeva il mio primo anno ad Harvard, cominciai a sentirmi abbastanza coraggioso da visitare i laboratori d’informatica per vedere cosa avevano. Chiesi in prestito copie di qualunque manuale disponibile.”

Portatosi a casa quei manuali, Stallman avrebbe poi esaminato le specifiche delle macchine, paragonandole a quelle di modelli già conosciuti e buttando giù qualche programma sperimentale, che avrebbe infine riportato al laboratorio insieme ai manuali presi in prestito. Anche se qualche assistente storceva il naso all’idea che un ragazzo qualunque potesse lavorare sulle macchine interne, gran parte di loro finiva per riconoscerne le competenze tecniche, consentendogli così di far girare sul computer i programmi che aveva creato.

Un giorno, ormai al termine dell’anno da matricola, Stallman venne a sapere dell’esistenza di un laboratorio speciale nei pressi del Massachussetts Institute of Technology (MIT). Si trovava al nono piano di un edificio appena fuori dal campus, su Tech Square, nel complesso appena costruito e riservato alla ricerca avanzata. Secondo le voci che giravano, quel laboratorio era dedicato alle tecniche d’avanguardia nel campo dell’intelligenza artificiale e vantava la presenza di macchine e software tra i più sofisticati.

Intrigato, Stallman decise di farvi un salto.

Il percorso era breve, circa tre chilometri a piedi, meno di dieci minuti in tram, ma come Stallman avrebbe scoperto quanto prima, il MIT e Harvard incarnano i poli opposti di uno stesso pianeta. Con il labirinto di corridoi che univa una serie di edifici interconnessi, il campus del MIT presentava un’estetica minimalista rispetto allo spazioso villaggio coloniale di Harvard. Analoga l’impressione riguardo agli iscritti del MIT, una variegata raccolta di studenti un po’ svitati, noti più per la predilezione alle birichinate che per la brillante carriera politica.

Contrasti che non mancavano di estendersi al laboratorio di intelligenza artificiale. Diversamente dal laboratorio informatico di Harvard, qui non esistevano laureandi-custodi, nessuna lista d’attesa per l’acceso ai terminali, nessuna esplicita atmosfera di “si guarda ma non si tocca”. Stallman trovò soltanto una serie di terminali aperti e braccia robot, probabilmente serviti a qualche esperimento di intelligenza artificiale.

Nonostante le voci dicessero che chiunque poteva sedersi davanti a un computer, Stallman decise di seguire il solito piano iniziale. Quando incontrò uno degli addetti, chiese se non avesse per caso qualche manuale in più da prestare a uno studente curioso. “Ce n’era qualcuno, ma un sacco di cose non erano documentate”, ricorda Stallman. “In fondo erano degli hacker.”

Stallman se andò con qualcosa di meglio di un semplice manuale: un lavoro. Anche se non rammenta bene la natura di quel primo progetto, ricorda di esser tornato al laboratorio la settimana successiva, di essersi seduto davanti a un terminale libero e aver iniziato a scrivere un programma.

Ripensando a quell’evento, Stallman non vede nulla di insolito nel fatto che al laboratorio accettassero il primo venuto. “All’epoca si faceva così”, dice. “E funziona anche adesso. Se mi accorgo che qualcuno è bravo, lo ingaggio appena lo incontro. Perché aspettare? Sbaglia davvero chi si ostina ad attenersi sempre a rigide procedure burocratiche. Se una persona è in gamba, non è necessario che segua un processo lungo e dettagliato prima di essere assunto; meglio metterlo subito davanti a un computer a scrivere codice.”

Per avere un assaggio di rigidità burocratica era sufficiente che Stallman visitasse i laboratori informatici di Harvard. Qui l’accesso ai terminali era subordinato al grado accademico. In quanto studente non ancora laureato, generalmente Stallman doveva mettersi in lista e attendere fino a mezzanotte, quando la maggior parte dei professori e dei laureati finivano i compiti giornalieri. Non era difficile starsene ad aspettare, ma quanto meno frustrante. Dover attendere un terminale pubblico sapendo che nel frattempo una mezza dozzina di macchine ugualmente utilizzabili se ne stavano spente negli uffici chiusi dei professori, pareva il massimo dell’illogicità. Nonostante Stallman visitasse occasionalmente i laboratori informatici di Harvard, preferiva le procedure più egualitarie in vigore in quello di intelligenza artificiale al MIT. “Era una boccata d’aria fresca”, aggiunge. “Qui la gente si preoccupava più del lavoro che della posizione accademica.”

Stallman imparò rapidamente che in quell’ambito la pratica del “chi prima arriva, meglio alloggia” si doveva in gran parte agli sforzi di un pugno di persone. Molti erano reduci dall’epoca del progetto MAC, il programma di ricerca sostenuto dal Ministero della Difesa che aveva dato i natali ai primi sistemi operativi a condivisione di tempo (time-sharing). Alcuni erano già leggende del mondo informatico. C’era Richard Greenblatt, l’esperto locale di Lisp e autore di MacHack, programma per giocare a scacchi che una volta aveva umiliato Hubert Dreyfus, critico feroce dell’intelligenza artificiale. C’era Gerald Sussman, creatore originale del programma per funzioni robotiche denominato HACKER. E ancora, Bill Gosper, il mago della matematica già nel bel mezzo di un lavoro di hacking durato 18 mesi, messo in moto dalle implicazioni filosofiche del computer game LIFE[19].

Gli aderenti a questo gruppo ristretto si autodefinivano “hacker”. Col passare del tempo allargarono tale definizione allo stesso Stallman. In questo passaggo, egli venne messo al corrente delle tradizioni morali condensate nella “etica hacker”. Essere un hacker significava qualcosa di più che sviluppare semplicemente dei programmi, imparò presto Stallman. Voleva dire scrivere il miglior codice possibile e stare seduti davanti a un terminale anche per 36 ore consecutive, se per riuscirci occorreva tutto quel tempo. Fatto ancor più importante, significava aver continuamente accesso alle migliori macchine esistenti e alle informazioni più utili. Gli hacker dicevano apertamente di voler cambiare il mondo tramite il software, e Stallman imparò che l’hacker istintivo supera ogni ostacolo pur di raggiungere un tale nobile obiettivo. Tra questi ostacoli, i maggiori erano rappresentati dal software scadente, dalla burocrazia accademica e dai comportamenti egoistici.

Stallman venne anche a conoscenza del folklore tramandato nel tempo, i racconti di come certi hacker, imbattutisi in qualche intoppo, fossero riusciti a superarlo in maniera creativa. Apprese il cosiddetto “lock hacking”, l’arte di irrompere negli uffici dei professori per “liberare” i terminali sequestrati. Al contrario della viziata controparte di Harvard, i membri di facoltà al MIT avevano meglio da fare che trattare i computer del laboratorio di intelligenza artificiale come proprietà privata. Se uno di loro aveva commesso l’errore di chiudere in una stanza un terminale per l’intera nottata, gli hacker erano lesti a correggerne lo sbaglio. Altrettanto rapidamente mandavano un chiaro messaggio nel caso l’errore si fosse ripetuto. “Mi venne mostrato un carrello con sopra un pesante cilindro di metallo, usato per rompere la porta dell’ufficio di un professore”[20], ricorda Stallman.

Simili metodi, per quanto privi di finezza, puntavano a un obiettivo preciso. Nonostante professori e amministratori del laboratorio fossero in numero doppio rispetto agli hacker, era l’etica di questi ultimi a prevalere. Non a caso quando arrivò Stallman, gli hacker e gli amministratori del laboratorio avevano sviluppato una sorta di relazione simbiotica. In cambio di attività quali la riparazione delle macchine e il corretto funzionamento del software, gli hacker si erano guadagnati il diritto a lavorare sui progetti preferiti. Che spesso riguardavano l’ulteriore miglioramento delle macchine e dei programmi. Come uno scooter per un adolescente, la miglior forma di divertimento per la maggioranza degli hacker consisteva nel continuare a smanettare con i computer.

Un’attività questa che trova piena rispondenza nel sistema operativo su cui girava il mini-computer centrale del laboratorio, il PDP-6. Soprannominato ITS, acronimo per Incompatible Time Sharing System, questo sistema operativo incorporava l’etica hacker nel cuore del suo stesso progetto. Gli hacker lo avevano realizzato come protesta nei confronti del sistema operativo originale del progetto MAC, noto come Compatible Time Sharing System, CTSS, e anche il nome fu scelto di conseguenza. A quel tempo gli hacker consideravano quest’ultimo progetto troppo restrittivo, poiché limitava le possibilità dei programmatori nell’eventuale modifica e miglioria dell’architettura interna. Secondo una leggenda tramandata da un hacker all’altro, la decisione di costruire il sistema ITS aveva anche connotazioni politiche. Al contrario del CTSS, realizzato per la serie IBM 7094, l’ITS era stato specificamente progettato per il PDP-6. Nel consentire agli hacker di scrivere quei sistemi in piena autonomia, gli amministratori si erano garantiti il fatto che solo questi ultimi erano poi in grado di usare il PDP-6. All’interno del mondo feudale della ricerca accademica, lo stratagemma funzionò. Nonostante il PDP-6 fosse in comproprietà con altri dipartimenti, ben presto rimase ad esclusivo utilizzo dei ricercatori del laboratorio di intelligenza artificiale[21].

L’ITS includeva funzioni che la maggior parte dei sistemi operativi commerciali non avrebbe offerto per anni, tra cui multitasking, debugging e capacità di editing a tutto schermo. Poggiando sulle fondamenta garantite da queste funzionalità e dal PDP-6, il laboratorio era riuscito a dichiarare la propria indipendenza dal progetto MAC poco prima dell’arrivo di Stallman.

In qualità di apprendista hacker, egli si appassionò immediatamente al sistema ITS. Il sistema presentava numerose opzioni considerate vere e proprie lezioni nello sviluppo del software per un’apprendista come Stallman, anche se tali opzioni erano proibitive per la gran parte dei nuovi venuti.

“L’ITS aveva un meccanismo interno molto elegante che consentiva a un programma di esaminarne un altro”, ricorda Stallman. “Si poteva analizzare lo stato di un programma in modo molto pulito e dettagliato.”

Fu grazie a questa caratteristica che Stallman notò come i programmi scritti dagli hacker elaboravano le istruzioni man mano che queste comparivano. Un’altra funzione importante consentiva al programma di controllo di bloccare il programma monitorato mentre scorrevano le istruzioni. In altri sistemi operativi ciò avrebbe prodotto semi-elaborati incomprensibili oppure il blocco automatico del sistema. Nell’ITS, quella procedura offriva invece un’ulteriore possibilità di verificarne le prestazioni passo dopo passo.

“Se davi un’istruzione tipo ‘Ferma il processo’, il sistema si sarebbe sempre fermato nella modalità utente. Si sarebbe bloccato tra due istruzioni di tale modalità, e da quel momento in poi qualsiasi altro comando sarebbe stato conseguente.” spiega Stallman. “Se dicevi, ‘Continua il processo,’ avrebbe proseguito in maniera appropriata. Non solo: se si modificava lo stato del processo per poi riportarlo allo stato precedente, tutto si sarebbe svolto in maniera coerente. Non esisteva da nessuna parte uno stato nascosto.”

Entro la fine del 1970, l’attività di hacking al laboratorio di intelligenza artificiale aveva assunto per Stallman cadenza settimanale. Dal lunedì al giovedì seguiva i suoi corsi ad Harvard. Ma non appena arrivava il venerdì pomeriggio, eccolo prendere il tram T per recarsi giù al MIT, dove avrebbe trascorso l’intero week-end. Generalmente faceva coincidere il proprio arrivo con la rituale caccia a qualcosa da mettere sotto i denti. Unirsi ad altri cinque o sei hacker alla ricerca notturna di cibo cinese significava saltare in una macchina scassata e attraversare l’Harvard Bridge per raggiungere la vicina Boston. Nelle due ore successive il gruppo avrebbe chiacchierato di tutto un po’, dal sistema ITS alla logica interna della lingua cinese e al relativo sistema pittografico. Dopo cena, sarebbero tornati al MIT per lavorare al codice fino all’alba.

Per l’asociale che si univa raramente ai compagni delle medie, si trattava di un’esperienza non certo da poco, andarsene tutt’a un tratto in giro con persone che condividevano la sua stessa predilezione per i computer, la fantascienza e il cibo cinese. “Ricordo d’aver visto molte volte l’alba tornando in macchina da Chinatown”, disse Stallman con una punta di nostalgia 15 anni dopo, in un discorso tenuto allo Swedish Royal Technical Institute. “L’alba era davvero un spettacolo meraviglioso, perché è un momento così calmo della giornata. Periodo ideale per prepararsi ad andare a letto. È così bello camminare verso casa tra le prime luci del giorno con gli uccelli che iniziano a cinguettare; si prova una concreta sensazione di soddisfazione e tranquillità rispetto al lavoro svolto durante la notte.”[22]

Continuando a frequentare quegli hacker, Stallman finì con l’adottarne la visione del mondo. Già sostenitore della libertà individuale, prese a infondere un senso di responsabilità comune in ogni sua azione. Quando gli altri violavano delle norme condivise, Stallman saltava subito su a evidenziarlo. A un anno dalla sua prima visita, eccolo irrompere negli uffici chiusi a chiave per recuperare i terminali sequestrati che appartenevano all’intera comunità del laboratorio. Nella tipica attitudine hacker, non rinunciò a offrire i propri contributi all’arte del cosiddetto “lock hacking” (come forzare una serratura chiusa). Uno dei trucchi più creativi per aprire quelle porte, comunemente attribuito a Greenblatt, consisteva nel curvare un pezzo di fil di ferro e attaccarvi del nastro adesivo all’estremità più lunga. Dopo aver fatto scivolare sotto la porta il cavetto, lo si poteva ruotare in modo che l’estremità con il nastro adesivo arrivasse a toccare la maniglia interna. Ammesso che il nastro tenesse, un paio di strattoni e la porta si sarebbe aperta.

Dopo averlo provato, Stallman trovò il trucchetto buono ma inadeguato sotto alcuni punti di vista. Far aderire il nastro al fil di ferro era piuttosto difficile, e anche riuscire a girare la maniglia con uno strattore non era facile. Stallman ricordò che il soffitto dei corridoi aveva dei pannelli rimovibili. In realtà più di un hacker era ricorso allo stratagemma del controsoffitto per penetrare negli uffici chiusi, strategia che in genere funzionava, anche se ne uscivi coperto di fibra di vetro.

Stallman considerò allora un approccio alternativo. Invece di far scivolare un cavo sotto la porta, perché non cercare di spostare uno di quei pannelli e operare dallo stipite della porta?

Decise di provarci da solo. Anziché ricorrere al cavo metallico, preparò un nastro magnetico lungo a forma di U, alla cui base sistemò un ovale di nastro adesivo. Da sopra lo stipite, fece cadere quell’aggeggio finché non s’incastrò al di sotto del pomello. Dopo averlo spostato in modo da far aderire il nastro adesivo al pomello stesso, prese a tirare finché non riuscì a farlo ruotare. Ed ecco che la porta si aprì. Stallman aveva aggiunto un trucco nuovo all’arte del lock hacking.

“Talvolta bisognava dare un calcio alla porta dopo aver girato la maniglia”, dice Stallman rammentando le difficoltà del nuovo metodo. “E ci voleva un po’ di equilibrio nel tirare.”

Simili attività riflettevano la sua crescente volontà di parlare e agire in difesa del proprio credo politico. Lo spirito del laboratorio a sostegno dell’azione diretta lo aveva ispirato a spezzare la timida impotenza dei suoi anni giovanili. Forzare una porta per liberare un terminale non era lo stesso che partecipare ad una manifestazione di dissenso, ma risultava efficace forse più di una protesta. Risolveva il problema di quel momento.

Negli ultimi anni trascorsi ad Harvard, Stallman prese ad applicare anche in quell’ambito le bizzarre e irriverenti lezioni apprese al laboratorio di intelligenza artificiale.

“Ti ha raccontato del serpente?”, mi chiede sua madre durante un’intervista. “Insieme con il suo compagno di stanza, avevano presentato un serpente come candidato al consiglio studentesco. Pare che avesse ottenuto un considerevole numero di voti.”

Stallman conferma la candidatura del serpente con alcune precisazioni. Si trattava di elezioni limitate alla Currier House, il dormitorio di Stallman, non per le cariche di consiglio dell’intero campus.

Sì, il serpente ottenne un risultato significativo, in buona parte grazie al fatto che sia il serpente sia il proprietario condividevano il medesimo cognome. “La gente lo votò pensando di votare per quella persona”, precisa Stallman. “I manifesti della campagna riportavano che il serpente avrebbe ‘strisciato’ pur di arrivare a quella carica. Specificammo inoltre che si trattava di un candidato ‘latitante’, perché qualche settimana prima si era arrampicato sul muro per poi sparire nel condotto di ventilazione e nessuno l'aveva più visto.”

La presentazione di un serpente come candidato al consiglio del dormitorio non era altro che una delle numerose burle collegate alle elezioni locali. In un’ulteriore circostanza, Stallman e altri studenti proposero il figlio di un dipendente universitario. “La sua piattaforma prevedeva il pensionamento obbligatorio all’età di sette anni”, ricorda Stallman.

Tuttavia simili scherzi impallidivano al confronto di quelli analoghi organizzati nel campus del MIT. Uno dei più riusciti riguardava la candidatura di un gatto chiamato Woodstock, che in realtà ottenne più voti di gran parte dei candidati umani in un’elezione che riguardava l’intero campus. “Il numero dei voti ricevuti da Woodstock non venne mai reso noto, li considerarono nulli”, rammenta Stallman. “Ma l’elevata quantità di voti nulli sembrò suggerire che in realtà avesse vinto. Un paio d’anni dopo, il gatto venne investito da un macchina in circostanze sospette. Nessuno è mai riuscito a sapere se l’autista lavorasse per l’amministrazione del MIT.” Stallman sostiene di non aver avuto nulla a che far con la candidatura di Woodstock, “pur considerandomi un suo ammiratore.”[23]

Al laboratorio di intelligenza artificiale, le attività politiche di Stallman andavano assumendo connotazioni decisamente più serie. Durante gli anni ’70, gli hacker dovevano fronteggiare continuamente membri di facoltà e amministratori decisi a costruire una sorta di cordone intorno all’ITS e ai relativi progetti su misura per quegli hacker. Uno dei primi tentativi in tal senso avvenne verso il 1975, quando un crescente numero di professori iniziò a richiedere un sistema di sicurezza a tutela dei dati delle ricerche. La gran parte degli altri laboratori informatici aveva installato sistemi analoghi sul finire degli anni ‘60, ma il laboratorio di intelligenza artificiale, grazie all’insistenza di Stallman e di altri hacker, rimaneva una zona franca.

Per Stallman, l’opposizione ai sistemi di sicurezza era di natura sia pratica che etica. Da quest’ultimo punto di vista, egli non mancava di sottolineare come l’intera arte dell’hacking fosse basata sull’apertura e sulla fiducia intellettuale. Rispetto al lato pratico, ribadiva come la struttura interna dell’ITS fosse aderente a questo spirito di apertura, e ogni tentativo di re-impostare il tutto si sarebbe rivelata un’operazione assai complessa.

“Gli hacker cui si deve l’Incompatible Time Sharing System si resero conto di come la protezione dei file venisse solitamente usata dal gestore di un sistema per guadagnare potere rispetto a tutti gli altri”, così recita la successiva spiegazione di Stallman. “Non volevano che qualcuno potesse arrivare a tanto, perciò decisero di non implementare quel tipo di funzione. Come risultato, ogni qual volta nel sistema si verificavano dei problemi era sempre possibile risolverli.”[24]

Fu grazie a questo tipo di vigilanza che gli hacker consentirono alle macchine del laboratorio di intelligenza artificiale di rimanere immuni da ogni funzione di sicurezza. Al contrario, però, di quanto accadde nel vicino laboratorio d’informatica, sulla spinta dei membri di facoltà: qui il primo sistema protetto da password venne installato nel 1977. Ancora una volta fu Stallman ad assumersi la responsabilità di correggere quel che considerava una sorta di lassismo etico. Avuto accesso al codice del software che controllava il sistema delle password, vi introdusse un comando che inviava un messaggio a tutti gli utenti del laboratorio d’informatica mentre questi si apprestavano a creare una specifica password. Se ad esempio qualcuno sceglieva “starfish”, veniva generato un messaggio che diceva all’incirca:

Vedo che hai scelto “starfish” come password. Ti suggerisco di modificarla in “carriage return.” E’ molto più facile da digitare e aderisce al principio che nega l’esistenza di alcuna password.[25]

Gli utenti che optavano per “carriage return” -- quelli cioè che semplicemente premevano il tasto Invio, lasciando in bianco la stringa della password invece di digitarne una personale -- consentivano l’accesso al mondo intero, tramite il proprio account. Una pratica che, per quanto preoccupasse qualcuno, rinforzava il concetto secondo cui i computer del MIT, e perfino i file contenuti, appartenevano al pubblico anziché ai singoli individui. Nel corso di un intervista per il libro del 1984 Hackers, Stallman fece notare con orgoglio come un quinto dello staff del laboratorio d’informatica aderì a quella posizione, lasciando in bianco la stringa per la password.[26]

In definitiva però la crociata di Stallman si rivelò inutile. All’inizio degli anni '80 anche le macchine del laboratorio di intelligenza artificiale finirono per dotarsi di sistemi di sicurezza basati sulle password. E tuttavia l’episodio rappresentò una pietra miliare lungo il percorso della maturazione personale e politica di Stallman. Osservando con occhio attento le sue vicende successive, quell’evento si pone come punto di passaggio tra il timido adolescente terrorizzato a intervenire in pubblico persino su questioni d’importanza vitale e l’attivista adulto che avrebbe presto trasformato quell’attività di provocatore in occupazione a tempo pieno.

Nell’opporsi a piena voce ai sistemi di sicurezza, Stallman non fece altro che riflettere quelle forze su cui si era formato da bambino: sete di conoscenza, disgusto per l’autorità, frustrazione per procedure e regole nascoste che emarginavano quanti le ignoravano. In tal modo venivano inoltre evidenziati quei capisaldi morali che avrebbero dato successivamente forma alla sua vita adulta: la condivisione di responsabilità, la fiducia, lo spirito hacker mirato all’azione diretta. Ricorrendo alla terminologia informatica, si può dire che quella stringa vuota rappresentava la versione 1.0 della concezione politica globale di Richard Stallman -- incompleta in alcuni punti, ma per la gran parte giunta a piena maturità.

Col senno di poi, egli appare esitante nell’attribuire un significato eccessivo ad un evento avvenuto praticamente all’inizio della carriera di hacker. “A quei tempi i miei sentimenti erano condivisi da parecchia gente”, sostiene Richard. “L’ampio numero di persone che adottarono una stringa vuota come password è la testimonianza del fatto che per molti ciò fosse una scelta giusta. Io ero semplicemente incline a sostenere il ruolo dell’attivista.”

Stallman riconosce invece al laboratorio d’intelligenza artificiale il merito di aver risvegliato in lui quel ruolo di attivista. Da ragazzo aveva osservato gli eventi politici senza comprendere in che modo un singolo individuo potesse fare o dire qualcosa d’importante. Divenuto adulto, si era fatto avanti su questioni in cui si sentiva a proprio agio, temi quali la progettazione del software, la condivisione di responsabilità e la libertà individuale. “Ero entrato a far parte di questa comunità che professava il pieno rispetto della libertà reciproca”, sostiene. “Non ci misi molto a rendermi conto di quanto questo fosse positivo. Mi ci volle di più per capire come si trattasse in realtà di una questione morale.”

L’attività di hacking al laboratorio d’intelligenza artificiale non era l’unico contributo alla crescita della fiducia in se stesso. Verso la metà dell’anno da matricola ad Harvard, Stallman aveva aderito a un gruppo specializzato in danze popolari. Quel che era iniziato come un semplice tentativo di incontrare qualche ragazza e ampliare i propri orizzonti sociali, si tramutò presto in una nuova passione parallela a quella dell’hacking. Mentre si esibiva di fronte al pubblico con il costume di un contadino dei Balcani, Stallman appariva ben diverso dal ragazzino scoordinato, frustrato per i tentativi falliti di giocare a calcio. Si sentiva sicuro, agile e vivo. Per qualche breve istante, provò perfino la sensazione di un legame emotivo. Si rese subito conto di quanto fosse piacevole danzare davanti a degli spettatori, e finì presto per bramare tanto lo spettacolo in sé quanto il suo aspetto sociale.

Pur se la danza e l’hacking non riuscirono a migliorare di molto la situazione sociale di Stallman, lo aiutarono a superare quella sensazione di stranezza che ne aveva contrassegnato l’esistenza nel periodo pre-Harvard. Anziché doversi lagnare dei propri difetti caratteriali, trovò il modo per celebrarli. Nel 1977, mentre partecipava a un incontro sulla fantascienza, s’imbatté in una ragazza che vendeva spillette con slogan personalizzati. Eccitato, Stallman gliene ordinò una con la scritta “Processiamo Dio.”

Per Stallman si trattava di un messaggio che operava a diversi livelli. Ateo fin dalla prima giovinezza, quella frase rappresentava il tentativo di implementare un “secondo fronte” nel dibattito aperto sulla religione. “A quel tempo tutti parevano chiedersi se Dio fosse vivo o morto”, rammenta Stallman. “Quel ‘Processiamo Dio’ proponeva un approccio completamente diverso al problema. Se Dio era davvero così potente da aver creato il mondo senza tuttavia far nulla per correggerne i problemi, perché mai avremmo dovuto adorare un tale Dio? Non sarebbe stato invece meglio metterlo sotto processo?”

Contemporaneamente lo slogan andava inteso come una battuta ironica contro l’America e il relativo sistema politico. Negli anni ‘70 Stallman era rimasto molto colpito dallo scandalo Watergate. Fin da piccolo aveva imparato a non aver fiducia nell’autorità costituita. Ora, da adulto, quella sfiducia era stata rafforzata dalla cultura in vigore nella comunità hacker del laboratorio di intelligenza artificiale. Per gli hacker lo scandalo Watergate non era altro che un adattamento shakespeariano di quella lotta quotidiana per il potere colpevole di rendere misera l’esistenza di coloro senza privilegi. Era una parabola amplificata di quel che accade quando la gente rinuncia alla libertà e all’apertura in cambio della sicurezza e della convenienza.

Sostenuto da una crescente fiducia in se stesso, Stallman prese a indossare la spilletta con orgoglio. Ai più curiosi che s’azzardavano a chiedergli spiegazioni, impartiva un’identica litania ben preparata: “Il mio nome è Jehovah”, replicava Stallman. “Ho un progetto speciale per la salvezza dell’universo, ma per motivi di sicurezza a livello del paradiso non posso rivelare nulla di più. Devi soltanto aver fiducia in me, perché soltanto io sono in grado di vedere come stanno le cose. Tu sai che io rappresento il bene supremo perché così ti ho insegnato. Se non avrai fede in me, ti metterò sulla lista dei nemici per gettarti nell’abisso dove l’Ufficio Infernale delle Imposte passerà al vaglio le tue dichiarazioni dei redditi da qui all’eternità.”

Coloro che interpretavano la litania come una parodia letterale delle udienze sullo scandalo Watergate afferravano soltanto metà del messaggio. Stallman voleva anche riferirsi a un ambito comprensibile soltanto ai colleghi hacker. Un secolo dopo l’avvertimento di Lord Acton sull’equazione tra potere assoluto e corruzione altrettanto assoluta, gli americani sembravano aver dimenticato la prima parte del truismo di Acton: è il potere stesso a corrompere. Anziché porre in evidenza i numerosi esempi di flagrante corruzione, Stallman parve soddisfatto di esprimere in tal modo il proprio oltraggio nei confronti di un intero sistema che venerava il potere al di sopra di tutto.

“Mi chiedevo come mai ci si fermasse ai pesci piccoli”, spiega Stallman, ricordando quella spilla e il relativo messaggio. “Se ce la prendevamo con Nixon, perché non fare lo stesso con il Sig. Grande? Dal mio punto di vista, chiunque detenesse il potere e ne avesse abusato, meritava di esserne spogliato.”



[15] Si veda Michael Gross, “Richard Stallman: High School Misfit, Symbol of Free Software, MacArthur-certified Genius” (1999).

[16] Tammany Hall, sede del Partito Democratico a New York, è diventato sinonimo di corruzione politica negli USA a causa di episodi svoltisi nella prima metà del Novecento. [N.d.R.]

[17] Carmine DeSapio detiene l’equivoco primato di essere stato il primo boss italoamericano di Tammany Hall, la macchina politica di New York City. Per maggiori dettagli su DeSapio e le politiche del dopoguerra a New York, si veda John Davenport, “Skinning the Tiger: Carmine DeSapio and the End of the Tammany Era”, New York Affairs (1975), 3, 1.

[18] Chess, altro ex-studente del Columbia Science Honors Program, descrive le proteste come “rumore di sottofondo”. E aggiunge: “Eravamo tutti politici, ma quel corso era troppo importante per noi. Non avremmo mai saltato una lezione per partecipare a quelle manifestazioni.”

[19] Si veda Steven Levy, Hackers, Penguin USA, 1984, p. 144. Levy dedica circa cinque pagine alla descrizione del fascino esercitato su Gosper da LIFE, gioco informatico basato sul calcolo creato dal matematico britannico John Conway. Raccomando caldamente il libro di Levy come supplemento, fors’anche come prerequisto, a questo volume.

[20] Gerald Sussman, membro di facoltà al MIT e hacker il cui lavoro al laboratorio di intelligenza artificiale fece seguito a quello di Stallman, contesta questo ricordo. Secondo Sussman, gli hacker non avrebbero mai fatto irruzione in alcun ufficio per liberarne i terminali.

[21] Mi scuso per il veloce riassunto sulla genesi dell’ITS, sistema operativo che numerosi hacker considerano tuttora l’epitome dell’etica hacker. Per maggiori dettagli sul significato politico del programma, si veda Simson Garfinkel, Architects of the Information Society: Thirty-Five Years of the Laboratory for Computer Science at MIT, MIT Press, 1999.

[22] Si veda Richard Stallman, “RMS lecture at KTH (Svezia)”, (30 ottobre 1986). http://www.gnu.org/philosophy/stallman-kth.html

[23] In una e-mail che Stallman mi ha inviato poco dopo l’ultima stesura del libro, aggiunge di aver tratto ispirazione anche dal campus di Harvard. “Nel mio primo anno ad Harvard, nel corso di Storia della Cina, studiai le vicende della prima rivolta contro la dinastia Chin”, scrive. “Non si tratta di eventi storicamente attendibili, ma ne rimasi molto colpito.”

[24] Si veda Richard Stallman (1986).

[25] Si veda Steven Levy, Hackers, Penguin USA, 1984, p. 417. Ho modificato la citazione, riportata da Levy anche come estratto parziale, per illustrare più direttamente il modo in cui il programma mettesse a nudo le false sicurezze del sistema.

[26] Ibid.


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