Il suono del silenzio

Negli anni Cinquanta don Beppe andava all'eremo di Fonte Avellana ancora a dorso di mulo. La strada non c'era, il viaggio durava mezza giornata in una "selva oscura" di querce e cinghiali. Oggi che ha 80 anni, Beppe a Fonte Avellana ha scelto di viverci. E' uno che parla poco: ma stasera, davanti alla Topolino che sbuca dal temporale davanti al portone del convento, gli torna la voglia di raccontare. Quell'auto pellegrina mandata dal destino è un pezzo della sua vita. L'anello mancante tra il mulo e la modernità, la gioventù e la vecchiaia. Con lei, la memoria si rimette in moto.
"Venite", intima affettuosamente, e ci guida verso la cantina attraverso corridoi secolari, quadri di priori defunti, scale lisciate dal tempo. Lì sotto, parcheggiata su terra battuta, nella penombra, c'è una Cinquecento beige. La macchina della sua vita. L'unica. "Eccola qui la mia piccola. E' ancora in buono stato e posso guidarla, se voglio. E' insuperabile con la neve. Me lo ricordo bene: le auto dei ricchi finivano di traverso, e io passavo. Sempre. Non servivano nemmeno catene. Vedete, gli ultimi saranno sempre i primi".



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L'eremo non lo vedi finché non ci sbatti il muso contro, nascosto com'è in una conca rocciosa fitta di querceti. Sopra il portale una lapide dantesca dice che nei secoli poco è cambiato. "Tra due liti d'Italia surgon sassi / e non molto distanti alla tua patria / tanto che i tuoni assai suonan più bassi / e fanno un gibbo che si chiama Catria / di sotto al quale è consacrato un ermo / che suol esser disposto a sola latria". E sul Catria tuona per davvero; un brontolìo lungo, come di treno che passa su un ponte in ferro.

Il monte ci accoglie con tuoni a ripetizione, ora in tutte le tonalità e tutti i timbri possibili. Botti secchi come di legna che arde. Una grande lamiera agitata dal vento. Una frana cupa, con l'eco che la sdoppia. Un cassone trascinato da qualcuno al piano di sopra, tra le nubi. Un ruggito rauco, sgangherato, lungo. Il vento ulula, il faggeto si agita, si popola di demoni. Tutto è amplificato, ha un'eco speciale. Fonte Avellana è un padiglione auricolare che cattura i tuoni e rimanda litanie.

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Di notte in un convento può succedere di tutto. Anche che una donna vestita di nero, bella come una dea, ti svegli alle tre del mattino. Una dea-madre appenninica, o forse l'icona di un volto perduto. E' venuta in sogno da chissà dove, ma tu credi di averla vista davvero, ferma con le spalle al muro dello Scriptorium, accanto al portone d'ingresso. Fuori il vento è caduto, la foresta è immobile sotto nubi diafane e poche stelle. Ora non è più una massa in movimento ma un popolo di individui muti in ascolto. Il silenzio è ascolto, Fonte Avellana è ascolto, la sua verde conca nascosta è un sismografo planetario, una cassa acustica che amplifica le pulsazioni, il tamburo lento della Terra.

Un lampo violetto illumina la pendola, il muro crepato dall'ultimo terremoto, la statua di San Giuseppe che dorme, la cella di un frate novantacinquenne che non esce mai e di cui non so il nome. Nel corridoio di Giulio Secondo, il papa-guerriero che fu priore quando l'eremo divenne potenza mondana, celle di trapassati col nome di Parisius, Gaudentius, Walfardus, Raynaldus. E ancora Bononius, Thomas, Raynerius, Albertinus. Ora si sentono solo i miei piedi scalzi e un cuculo nella foresta. Nell'era del rumore, la scelta del silenzio è rivolta, atto di guerra, rivendicazione di libertà. Ma forse anche nell'anno mille, al tempo del fondatore Romualdo, era la stessa cosa.

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Nei monasteri ho trovato tanti tipi di silenzio. Quello da caserma dei ricchi benedettini bavaresi. Quello tenebroso e triste dei monaci ortodossi in fondo alla Turchia. Il silenzio alacre dell'Ospizio di San Bernardo, sul confine svizzero, dove la notte si popola di sospiri, scricchiolii, ticchettii, sommesso russar di pellegrini. Qui, invece, hai il silenzio fermo del capolinea. Fonte Avellana non ti accoglie con un caldo parquet di legno, ma con fredda pietra. Non ti indica le vette ma l'abisso, lo stesso da cui prorompe la fonte dei noccioli. Una dea, forse la stessa che m'ha chiamato in sogno verso lo Scriptorium.

Padre Arrigo, giovane monaco con base a Camaldoli, in Toscana, mi dice che il silenzio è "guardiano del mistero", rende possibili "percezioni inaudite", fa del passare del tempo una perfetta celebrazione. Ma il silenzio è anche disponibilità, accoglienza, stupore; e queste, insiste, sono qualità al femminile. La sera, in refettorio, me ne ha lungamente parlato il priore Alessandro. "Esiste il silenzio vuoto, totalitario, che ti schianta. E c'è il silenzio pieno, dello spazio sacro, che ti riempie. I monaci cercano il secondo". Il greco dice già tutto. "Erema": dolcemente, quietamente, tacitamente, lentamente. "Eremazo": sono quieto, silenzioso, melanconico. "Eremei": sto calmo, zitto, saldo, immobile.

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Alla cappella dove si tengono le laudi mattutine puoi arrivare a occhi chiusi, basta seguire il canto e il ciabattare dei monaci. E' facile distinguerli a orecchio. Il priore, grandi scarpe e passo lungo. Cesare, il bibliotecario, leggero come un hidalgo dei quadri di Velasquez. Fra Giuseppe detto "il greco", pesante e barbuto, un lampo piratesco negli occhi. I passi piccoli di frà Giuseppe e frà Giacomo, l'organista, curvi col rosso salterio in mano. L'andatura forte del vecchio don Beppe che veniva a dorso di mulo. Don Marco da Rimini, passo elastico, barba e riccioli biondi da capitano di ventura.
Sette in tutto; c'è di che sentirsi soli. Dalla cappella si leva una laude monodica, triste. Il latino non c'è più, i camaldolesi vi hanno rinunciato tra i primi nel mondo cattolico. Ma così anche il gregoriano è scomparso, e la magia sonora delle celebrazioni s'è in parte perduta. "Quando son venuti i rumeni a cantare da noi, era tutta un'altra cosa" ammette il bibliotecario, come se solo con i fratelli ortodossi avesse scoperto il senso acustico del luogo.

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A pranzo c'è una sorpresa in refettorio: l'attore Giuseppe Cederna e sua moglie Valentina. Li ho incontrati pochi giorni fa in casa di Piero Gobetti in Lucchesia, e ora me li ritrovo qui, attenti come scolaretti, in ritiro spirituale. Che festa incontrarsi così per caso. Fa freddo. M'accorgo che nell'eremo non ci sono caminetti, non ci sono mai stati. Nel medioevo si passava l'inverno senza fuoco acceso, curvi per ore sui manoscritti, immobili nel gelo più totale. "Era gente di un'altra tempra - ammette il bibliotecario - un'altra genetica".

Finiamo la giornata a parlare di Islam, Israele e Terrasanta, della cripta che è orientata a Est e s'illumina esattamente all'ora delle laudi, o di questo pazzo viaggio appenninico che si allunga come il mantice di una fisarmonica che comincia a Cadibona e finisce sullo Stretto. La macchinina venuta da un'altra epoca è stata un catalizzatore di memorie. Ha sbloccato qualcosa tra noi e i monaci, e ora i bravi camaldolesi non vorrebbero che ce ne andassimo via.
La pioggia aumenta, dal Catria scende una valanga di nubi grigio-piombo. Rivedo le grandi montagne incontrate fin qui: il Penna, il Gòttero, la Pietra di Bismantova che diede all'Alighieri l'idea del Purgatorio. E poi il Cusna, il Cimone, il Falterona, il Libro Aperto, il Sasso Simone. I pilastri dell'Appennino.

La carta del viaggio, dispiegata sul tavolo comunitario, suscita meraviglie nella divina brigata. "Devi assolutamente andare sugli eremi della Maiella" intima frate Cesare. "E non dimenticare Roccaporena, dov'è nata Santa Rita, sotto i monti delle Sibille", aggiunge il priore. Non siamo più noi che facciamo il viaggio: ora è il viaggio che si fa da sé. Dalla cucina arriva profumo di capretto arrosto, patate e rosmarino; ora nemmeno noi abbiamo voglia di tornare nel mondo del rumore, là dove trilla il cellulare.

(9 agosto 2006)


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