Dell'ottava e ultima rima


Il Lazio comincia con un buio compatto, quasi afgano. Strade deserte, boschi neri, villaggi senza una luce. Come se un diserbante avesse annichilito ogni presenza umana. Che qualcosa di oscuro si preparasse s'era capito già sui Monti Sibillini, in terra umbra, dallo sguardo sibillino della banconiera dell'hotel "Sibilla". Un occhio fenicio, in fondo a una penombra profumata di ragù e lenticchie, che diceva: "Attento, stai entrando in terre arcane". Fuori c'erano le praterie della piana di Castelluccio, imbiancate di neve fresca caduta durante la notte, ma posti come il Monte Utero, il lago di Pilato e le gole dell'Infernaccio già parlavano di negromanzia. Ero già sull'orlo dell'abisso.



Al crepuscolo, in provincia di Rieti, le cose sono peggiorate. Un vuoto umano totale. Solo qualche pullman di preti e pie donne in viaggio verso Cascia e Roccaporena, i mistici luoghi di Santa Rita orrendamente cementificati. Ora, a Leonessa, un bel borgo medievale, gli alberghi sono chiusi o "non ricettivi". La poca gente mi guarda strano, non sa come collocare questo viaggiatore solitario, su una macchina d'altri tempi. Mi salva solo un cartello con la scritta "agriturismo", che indica un paese di nome Villa Pulcini.

Arrivo al crepuscolo, trovo quattro case e un cane enorme in mezzo alla strada. Nessuno in giro, anche la locanda è chiusa. Il bosco alita fin dentro le aie, promette imminenti incursioni di volpi. Penso: meglio non essere una gallina da queste parti. Ma il mistero aumenta davanti al monumento ai Caduti, poco sotto la chiesa. I cognomi sono solo di due tipi: Pulcini e Fagiani. Rigorosamente. E poiché pure i nomi - Carlo, Giuseppe, Antonio - si ripetono, accanto hanno messo il nome dei padri per evitar confusioni. Dura, per il postino, consegnare una lettera da queste parti.

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A un tratto, un canto corale rompe il silenzio, le porte della chiesa si spalancano, un piccolo fiume di gente si riversa per strada. La messa è finita, andate in pace. Meno male: non ci sono solo i morti a Villa Pulcini. Così incontro la Gina, la proprietaria della locanda. Mi apre il locale e svela l'enigma dei cognomi. I Pulcini vengono da Ferentillo, scapparono non si sa perché. I Fagiani arrivarono da Poggio Bustoni, il paese di Lucio Battisti, perché un fagiano s'era innamorato di una pulcina. "E io - dice - sono la figlia del poeta". Il poeta? "Sì, Leonardo Pulcini, uno dei grandi dell'ottava rima".

Ora ricordo! Francesco Guccini me l'aveva detto che da queste parti viveva ancora la voce antica dell'Appennino. Sono fortunato: in locanda arriva Pietro De Acutis, uno che proprio qui ha imparato dal nonno i segreti del poetar cantando. Con tre avventori, mi spiega il trucco delle assonanze, delle rima baciata finale, del modo di mettere in difficoltà gli avversari nelle pubbliche disfide. Esempio? Due avventori scelgono un tema, i preti. Uno pro e uno contro. "Ricurvo sotto il legno del misfatto / L'uomo divino sale al suo calvario...". La prima ottava è un'impressionante crocefissione. Sì, riparte l'altro, ma quando il povero Cristo è lì appeso, il prete scappa, e "chi lo conforta in tanta confusione? / Una bella puttana e un gran ladrone".

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Tiriamo tardi a melanzane, pecorino e vino rosso. Fuori, sempre quel buio da paura. Come mai questo vuoto, chiedo, se Roma è vicina? "Roma? - saltano su tutti come se avessi nominato il diavolo - è proprio Roma il problema!". Nessuno rimane in un paese che ha dietro l'angolo la Città Eterna. Roma fa le notti bianche? Già a Rieti, dicono, non trovi locali aperti dopo le 22. "Eravamo Abruzzo una volta, poi Mussolini ci ha annesso al Lazio, ma - lamenta Gina - non c'è convenuto per niente". E pronuncia la parola "Abruzzo" con fierezza, come se evocasse una mito di resistenza, di fronte a una realtà di sconfitta.

Sarebbe da spiegarlo al Bossi che dire "Roma ladrona" ha più senso in Lazio che in Padania. "Roma è un ragno - soffio sul fuoco mostrando la carta geografica - con le vie consolari come zampe insaziabili". "Un ragno, sicuro!" s'illumina De Acutis. Ho fatto centro, il ragno è il nuovo tema della serata in rima. "Ascolti questa. E' di Bernardino Perilli, l'ultimo dei grandi. Saggio maestro della tessitura / il buon lavoro sempre ti accompagna / lungo le crepe delle vecchie mura / intesse il giorno la tua tela ragna ... però lavori in maniera un po' losca / tessi lo trabocchetto per la mosca".

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Vado a letto quasi a tentoni in un buio compatto, in una casetta oltre la strada. Mi rode una curiosità: esiste un rapporto tra la rima cantata e quest'incommensurabile silenzio? Non ho forse trovato la stessa cosa sui monti tra Liguria, Toscana ed Emilia, terre dimenticate dove però risuonano pifferi, fisarmoniche e cornamuse? Vasco Rossi, Francesco Guccini, Lucio Battisti non vengono forse dal più recondito Appennino? Non sono anche loro figli del silenzio?

Capita, nei viaggi, che le curiosità ti assalgano di sera. Se non le soddisfi, passi la notte in bianco. Così chiamo al telefono Nanni Barbero, un vignaiolo della Lunigiana che sa tutto di quello che lui chiama il "free style della poesia cantata". Lui non ha dubbi: "l'ottava rima è figlia del silenzio dei campi. Era l'improvvisazione assoluta. L'uomo solo parlava tra sé per passare il tempo, e le parole si combinavano spontaneamente tra loro. Il padre di Benigni era un mostro in Ottava. Il figlio è un prodotto di questa cultura. Anche Umberto Eco lo è".

Già, ma la memoria? Quella da dove viene? Mi chiedo come facessero, per esempio, a ricordare le centinaia di quartine che componevano i "maggi", le grandi rappresentazioni drammatiche che mobilitavano interi paesi d'Appennino. Chiamo a Parma il musicologo Gigi Dell'Aglio, che un giorno mi ha parlato dei mirabolanti maggi rinati a Costabona, sotto il passo del Cerreto, in Emilia.
"Senti questa", mi dice. "Anni fa una ragazza iniziò una ricerca su un maggio. Tornò da me delusa, aveva trovato solo quattro vecchi che ne avevano sentito un'edizione da bambini, e non ricordavano quasi nulla. Le dissi: torna, e falli ricordare assieme. Lei tornò e i quattro, aiutandosi tra loro, ricostruirono 260 delle 340 quartine di cui era composto il maggio. Incredibile? Niente affatto. Allora non c'era la Tv a occupare la mente. Non c'era il rumore. Non c'era il ronzìo di fondo che ci obbliga a non pensare e a consumare. Sai, credo che la demenza senile altro non sia che un hard disc pieno".

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"Vai a trovare Fortunato Aloisi, a Terzone", mi dicono in locanda al mattino. "E' l'ultimo dei grandi. Ha 85 anni e una memoria di ferro". Così eccomi sulla strada per Terzone, dieci case e un fiumiciattolo, in bilico tra Umbria, Marche e Abruzzo. Al poeta ci arrivo a orecchio, seguendo un canto in rima che mi porta a una rimessa di fronte a una casa. E' lui, non può essere che lui. Canticchia lavorando al tornio, la schiena dritta, le mani forti di chi ha fatto mille mestieri.

Non s'è accorto di me. Non credo alle mie orecchie: "Schifani, Bondi, chiedano a Berlusconi / com'è andato lo sciopero fiscale? / La conta delle schede, gli sfrattoni / e l'ultima tornata elettorale? / Finitela di rompere i bitoni / che sono pieni e già deborda il male. / Perché vi piace tanto far di mostra / senza metterci mai la merce vostra?". Straordinario, l'attualità politica in endecasillabi, commentata in diretta. Un bardo del terzo millennio.

Mi vede, molla il banco da lavoro, mi stringe la mano. Spiega che le rime sono la cosa più facile del mondo, queste gli sono venute fuori d'istinto la sera prima, guardando il telegiornale. "L'ottava rima era come la patata col pomodoro a tavola, la usavi sempre, ritmava la giornata. Eravamo senza luce, senza radio, senza giornali... e quelle rime combattevano l'analfabetismo, invitavano a leggere anche in assenza di scuola. Ma lo sai qual era il più bel regalo per un pastore? Un libro".

(11 agosto 2006)


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