Majella, la dea madre

LE VECCHIE auto d'una volta ti impregnano del loro odore, come un bravo cavallo da mandria. In tre settimane di sole e intemperie, la Topolino mi ha messo addosso la puzza di un gaucho: un esotico impasto di ferro dolce e cuoio, sudore, polvere e bestiame, con in più un mix vetero-operaio di plastica, stagno, caucciù e guarnizioni. Una mutazione genetica. Mio figlio Andrea, che mi raggiunge in pullman sulla Tiburtina Valeria per farsi un pezzettino del viaggio, mi sente addosso l'odore del trabiccolo prima ancora di salirci. "Una via di mezzo - dice - tra un ranch e una balera di periferia".



Fiuta, soprattutto, il profumo dei luoghi attraversati. Un'altra Italia, dimenticata, fatta di mandrie, greggi e pastori; estranea al mondo asettico della modernità. Annusando la Topo, Francesco Guccini ha ritrovato l'odore dei macchinisti della ferrovia Porrettana. Una badante polacca ha chiuso gli occhi e ha rivisto come in sogno suo nonno rincasare dalle acciaierie di Cracovia. Una vecchia marchigiana ha ricordato i dragoni di re Vittorio e la merda di cavallo che si lasciavano dietro.

Ognuno scopre qualcosa. La polizia sente puzza di clandestino. E i cani, da giorni, mi annusano con troppo interesse.

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Sera di lampi e vento forte, esco a rafforzare gli ormeggi al macinino perché l'acqua non s'infili nelle giunture. A cena in una locanda, uomini della Forestale raccontano di un lupo investito sulla Tiburtina, tra Sulmona e la stretta del Pescara. Succede spesso: le macchine e i camion li beccano lì, sempre nello stesso punto. Il branco passa di notte. E a pensarci bene è sempre di notte che la sua ombra clandestina mi appare. Lo fa dalla partenza in terra ligure, da quando ho cominciato a fare contromano la sua epica strada verso le Alpi.

I forestali mi portano a sentirli, i lupi, ai piedi del Monte Morrone. Nella pausa tra un camion e l'altro scende un gran silenzio, e allora, a tratti, lontanissimo, ecco il lamento. "E' il solitario cacciato dal branco", mi dicono. Da un'altra direzione arriva il canto corale del gruppo. Poi l'ululato degli adulti, più breve, quasi soprannaturale.

C'è un esemplare malato, in quarantena, al centro della Forestale a Popoli. Lo fiuto a distanza, dall'odore forte di carne cruda lievemente putrefatta, completamente diverso da quello del cane. Me lo fanno vedere da uno spioncino. Dormicchia su un giaciglio di paglia, alza appena lo sguardo. La torcia elettrica illumina due occhi fieri, indimenticabili. Un lupo malato, zoppo e infetto, ha più nobiltà di un re. Di un uomo non se ne parla.

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Mattina splendida, Nerina rosicchia il pendio verso le gole di Caramanico, in mezzo a sorgenti, fontane, eremi sperduti e l'ultimo rifugio di Celestino Quinto, quello che rifiutò di diventare Papa. Veleggiamo con la capote aperta verso la Majella imbiancata in un terreno andaluso popolato di ulivi. "Attenti - ci hanno detto prima di partire: il Gran Sasso è maschio, la Majella è femmina. Comincia la terra delle dee-madri". Qualcosa di vero dev'esserci: la Majella è rotonda e morbida come le balie tettone d'una volta. Sulla strada solo qualche motociclista e una miriade di ramarri e serpentelli in cerca di tepore.

Sul Passo di San Leonardo il paesaggio si fa austriaco, tutto prati, campanacci e abbeveratoi. Poi è la discesa su Pacentro, una meraviglia. Torri medievali, uno stradone che corre sul displuvio tra rumore di stoviglie e profumo di arrosto. Un negozietto con tutto, dall'uva alle prese elettriche; una donna che mi vende un ombrello giallo con un sorriso stupendo; un barbiere che mi tosa gratis in omaggio alla Topolino e poi mostra dal balcone, una per una, le sorgenti attorno al paese. Sembra impossibile che la gente abbia potuto emigrare da qui. E invece, è scappata così in fretta che ha fatto in tempo a morire per la patria degli altri.

L'America soprattutto. Un manifesto pacifista in piazza parla di due morti in Vietnam, uno sulle Torri Gemelle, uno in Iraq. Verso Pescocostanzo, il treno Sulmona-Casteldisangro ci si affianca come un aereo, ci viaggia accanto sul rettilineo di un tratturo, alla stessa velocità, a cinque metri di distanza. Un unico vagone, con una ragazza che si sporge dal finestrino per salutarci prima che i binari si stacchino dalla strada, e cominci la discesa a precipizio sul Molise.

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Capracotta, quota 1400. Nubi basse, vento, per strada solo un cane, un bimbo in bicicletta, la pantera dei Carabinieri e, sui muri, gigantografie di epici inverni con metri di neve per strada. Oltre la chiesa, un precipizio con vista sulla valle del Sangro. In Molise il vuoto cresce. Dopo le grandi montagne-isole dell'Abruzzo, comincia una Polinesia di cime minori. Un perfetto luogo-rifugio per sanniti, longobardi e, si dice, cartaginesi datisi alla macchia alla fine della guerra punica.

Il capolinea della giornata è a Carovilli, un borgo delizioso a 30 chilometri da Isernia, risparmiato dalla peste della camorra e dello spopolamento. Intorno, luce radente purissima su foreste e cime aguzze dal nome eloquente di Penna, Pizzo e Capa. In piazza, l'orafo, il bar, la chiesa sconsacrata del Carmelo, la sede funzionante della società del Mutuo soccorso col biliardo e il gioco della dama. In dieci minuti attorno a Nerina c'è già un robusto capannello. "Topolina" la chiamano, teneramente. Lontano, fischia il trenino della Pescara-Isernia-Napoli. La macchina del tempo accelera, arretra le lancette di un secolo.

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Nella locanda "La Grande Quercia", col vento che soffia nel camino, si finisce scherzando sul diavolo e il malocchio, che in Molise regnano sovrani nella memoria e nei discorsi della notte. A tavola c'è Peppe Battista, medico condotto di Isernia appassionato di transumanze, e Nunzio Marcelli, un abruzzese che - primo in Italia - ha scelto di fare il pastore dopo la laurea (il contrario di Gavino Ledda, che fu il primo a laurearsi dopo essere stato pastore). E' venuto con le carte dei tratturi, per spiegarci come la nostra strada verso Sudest difficilmente potrà evitare le autostrade delle greggi. Tutto il paesaggio ne è segnato.

"Succedono cose strane da queste parti", cercano di impressionarci mentre fuori arriva dalle Mainarde un'aria cruda da giaccavento. "Siamo in una terra dove il sacro è intriso di demoniaco", ghigna Beppe. "Mia madre, quando c'erano malattie in giro, faceva fondere l'acqua con l'olio. Recitava una formula, e ci riusciva". Mario, il locandiere, barbetta e occhi neri da satiro, ridacchia attizzando il fuoco: "Ho imparato a vivere bene solo dopo aver intavolato buoni rapporti con i quattro diavoli che mi accompagnano: Belfagor, Satanasso, Lucifero e Belzebù". Con un gran gesto da gigione porta in tavola un piatto di costate enormi.
Ed ecco il Molise riemergere dalla notte come la terra di "veneri e priapi". A Isernia, ci spiega uno del tavolo accanto, la chiesa di San Cosma e Damiano ha un campaniletto chiaramente fallico sul tetto. "Lì sotto gli uomini andavano a farsi benedire il sesso per favorire la fertilità del gruppo". Roba passata, ovviamente. La Chiesa locale, oggi guidata da un vescovo con patente di esorcista, ha abolito il rito da tempo, e gli imbarazzanti ex voto sono stati spediti al confino nei musei o trasformati in talismani a forma di corno ("Il corno ci dicono - è solo un fallo mascherato"). Della festa originale è rimasta solo la processione, col trasporto di grandi ceri, allusivi ma non troppo.

Sarà un caso, ma da allora il Molise ha smesso di far figli. Crisi demografica galoppante. Di fronte alla quale i preti, poveretti, non sanno che pesci pigliare. Sanno bene che dietro a Cosma e Damiano c'è in agguato l'ombra dei loro antenati pagani, in esilio da due millenni con un esercito di fauni, satiri e priapi. I fratelli greci Dioscuri, splendidi di potenza riproduttiva, pronti a rimpiazzare i santi resi sterili per scelta clericale.

(13 agosto 2006)


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