La macondo in terra irpina


Il folle viaggio con Vinicio Capossela, uccello notturno della canzone italiana, comincia alla nove della sera, in fondo alla valle di casa sua, sull'Ofanto serpeggiante di brume, con la Topolino blu che fila nel buio tra i canneti, illumina con i fari capannoni dismessi, cani sciolti, scali merci e binari abbandonati. In alto, sulla collina, sotto le stelle dell'Orsa, Calitri, in rotta tra i grilli come un transatlantico dai cento oblò illuminati, ammiraglia di una flotta di paesi naviganti. "Quella è la mia Macondo" sorride Vinicio, come se indicasse Gerusalemme dal Getsemani la notte del tradimento di Giuda.



Esce dall'automobilina, cerca tra lucciole e rovi, un po' Cristo e un po' ladrone. Trova un varco tra gli alberi di gelso, dove la vista si apre. Da qui, i contrafforti antisismici del paese paiono i costoloni di uno strano capodoglio, sospeso come un dirigibile sul cielo dell'Alta Irpinia. Ah Calitri, terra di famiglia di Capossela Vinicio, nato emigrante in Amburgo e cresciuto emigrante in Emilia, quando i terroni erano chiamati "Marucchein". Calitri dei ritorni e degli amici. Calitri dei mandolini, avamposto campano sulla Basilicata, luccicante tra costellazioni di paesi, rossi mozziconi nel buio.

Come nelle storie di Marquez, anche qui visibile e invisibile si sovrappongono, formano mondi paralleli. Il sentiero della Cupa è gli angoli bui dell'anima. L'Ofanto è la valle del Giordano, la fonte battesimale, il luogo della rigenerazione. I tornanti dal fiume fin su al paese, l'ascensione nei meandri del tempo. Il bosco della Frascineta, lo spazio arcano del fauno e di antiche divinità pagane alla macchia. E l'altopiano della Formicosa, dove tira aria da tutti i lati e nulla ti protegge, è la Mancia di Don Chisciotte e dei mulini a vento.

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Una, due luci, un sentierino di ghiaia, risate, strimpellar di mandolino. È una festa. Anzi, di più. A Calitri la chiamano "conversazione". Roba partigiana per soli uomini, quando si mangia in allegria e si canta in sonetti, gli stornelli del Sud. Il posto è una baracca rimessa in ordine, con pergolato e i tavoli già apparecchiati. Anche in cucina, solo maschi attorno a padelle e girarrosti: una sorpresa - o forse una trasgressione - nella terra dove fuochi, pentoloni e fornacelle sono monopolio delle donne. Vestali e padrone delle penombre di casa.

A tavola, ci si chiama per soprannome, all'antica. Per esempio: Spaccacipogghia, N'trantola, o' Carnefice. Ci sono anche Tuttacreta e o' Cinese, rispettivamente fisarmonicista e cantante; ex maestri del liscio, oggi pilastri della "Banda della Posta", così chiamata per la tenacia con cui i suddetti piantonano l'ufficio Pt, erogatore della pensione. Si scaldano gli strumenti, arrivano gli antipasti. E intanto il barbiere Gianni Sicuranza col suo "cumpà" Jucci r'Bellino, pontefici massimi del sonetto, mi istruiscono sui santi protettori della zona.

Politeismo puro. Esempio: Gerardo, santo delle partorienti. Santa Liggia, la mirabolante protettrice dei ciucci, cioè gli asini. Ne hai per tutti i gusti, e non sai se sono santi davvero o personaggi da commedia dell'arte. Esempio: San Martino, nume tutelare delle donne dal seno grande, feconde dee madri del Sud. Ma il massimo è San Liborio, eh sì, San Liborio, quello non lo si invoca mai abbastanza. Il provvidenziale Liborio, protettore dei "cornuti volontari", che suscita ovazioni tra i commensali e tante benedette opportunità mette su piazza.

Vinicio vola tra i tavoli come un grande pipistrello nero, è ciucco, commosso e felice. Lui, che dovrebbe cantare, ascolta come uno scolaro. Un gruppo con violino la butta sul lirico-napoletano, "Il soldato innamorato", ma poi trionfa la cantata paesana, storie di amori folli e terreni, come "Zompa la rondinella", dove lui dice a Filomena: dai, facciamolo un'altra volta, succeda quello che succeda, stavolta daremo fuoco al treno. "Senti? Senti che meraviglia?" mi grida Vinicio nell'orecchio per farsi sentire nella baraonda: "Azzeccate n'atra vota / e che ne viene viene / amm'a piccià lu treno".

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A notte inoltrata si va sul triste, canzoni da guerra mondiale sull'aria del Trentino, al fronte, che ha fatto cambiare i colori al povero soldato, ma poi i colori gli torneranno "questa sera a far l'amore". Ci provo anch'io, con una di casa mia, "Val più un bicier de dalmato", che non è nemmeno tanto facile, simula i micidiali alti e bassi dell'alcolizzato. I mandolini vanno dietro, prima esitanti, in cerca della nota giusta, poi quasi increduli che uno del Nord ci metta dell'anima. Ma sì l'Italia è una, viva l'Italia.

Risaliamo in paese, verso casa Zampaglione dove siamo superbamente acquartierati in stanze con letti d'ottone, in tempo per vedere dalle nostre terrazze, oltre un mare di tetti digradanti, la prima luce che sale dalla nobile terra di Puglia. La meraviglia non è solo la luce pastello - verdi, blu e rossi tenui che si svegliano - ma il propagarsi dei suoni. Non s'è ancora spento giù nell'Ofanto il mandolino di Rocco Briuolo che già sento, dall'altra parte della valle, i galli di Rapone.

Dopo i galli, comincia il cuculo sul fiume. Poi i campanacci delle vacche verso Aquilonia. Ma già abbaiano i cani verso Cairano, a Occidente, pazzi dietro Luna calante. Intanto la corriera da Avellino si fa sentire sui "tornanti di Scatozza" (Vinicio li ha battezzati così nel nome di un mitico camionista). E se non l'avessero tolto, maledette ferrovie, si sentirebbe anche il treno sulla linea Avellino - Rocchetta Sant'Antonio. Ovunque, passeri in fregola. Poi, in un incendio arancione, esce il sole e allora devi quasi tirarti dentro, perché le rondini a migliaia ti fanno il pelo sul davanzale.

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A sole alto, smaltita la sbornia, con davanti un caffellatte nella veneranda sala da pranzo di casa Zampaglione, ancora non immagino che in una giornata sola, semplicemente circumnavigando il feudo di Calitri, farò più salite che in qualsiasi altra tappa di questo pazzo viaggio appenninico. Infatti, non so che questo è il "paese dei coppoloni". E non so che i coppoloni non sono solo i berretti degli uomini, ma anche le alture torreggianti, ripide e solitarie, da dove i paesi dell'Alta Irpinia si sporgono come falchetti nel nido. Il che comporta, per chi ci vuol salire, dislivelli e pendenze micidiali.

Capossela è euforico, s'è ficcato in t'a capa di andare in visita pastorale ai suoi luoghi del mito. Solo che non gli basta starci seduto, nella Topolino. Ci viaggia in piedi come il Papa benedicente, con tutto il busto fuori dalla capote aperta. Ah, quanto gli piace la macchinina, se la mangia con gli occhi. Traversa Calitri, saluta, firma autografi, vola verso Bisaccia e Andretta longobarda tra praterie digradanti e masserie dai nomi misteriosi, allarga le ali di quel cappellaccio corvino che, in lui soltanto, riassume lo zingaro e il predicatore, un blasfemo Achab e un timorato rabbino.

Decolliamo in un cielo da deltaplani, incontriamo un'Ape che a vederci s'inchioda per lo stupore, giochiamo col vento, cerchiamo quota nella ghiaia verso un'alta prateria disseminata di pale eoliche. Sono enormi, la Topolino diventa un foruncolo blu. Ascoltate una alla volta, fanno fof fof fof, ma tutte insieme emanano un unico possente respiro, quieto e regolare come un'onda oceanica. Quando ci siamo sotto, per un effetto ottico, la pala al culmine esita per un attimo, poi ci piomba addosso come una mannaia.
Salite e discese, salite e discese, la Topo urla in prima e il nostro canticchia felice. Poi è l'apoteosi, la rampa tremenda per Cairano, l'archetipo dei coppoloni. Anzi, il coppolone per eccellenza. Un labirinto che s'impenna fin sul precipizio, un posto da tentazione di Cristo, con Vinicio che si lancerebbe nel vuoto col nero mantello come parapendio e magari con tutta la Topolino. Sotto, foschia come di salsedine, e odore di legna bruciata.

(18 agosto 2006)


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