In cima alla montagna sacra

IL SUD, quello vero, ci viene incontro appena il trabiccolo blu saluta le terre di Capossela, incrocia l'antica via Appia e oltrepassa la Sella di Conza per iniziare la discesa sul Tirreno. Una mutazione impressionante rispetto all'Alta Irpinia e alla Basilicata appena attraversate. Esausti cani randagi, case non finite, monti arcigni. La segnaletica diventa inattendibile, aumentano le immondizie e l'anarchia del territorio. Palamonte, per esempio. Una posizione superba, come l'irpina Calitri. Ma, a differenza della prima, è distrutta dall'abusivismo. Ti mette sul "chi va là" appena arrivi.



Che succede? Succede che il Sud non ha niente a che fare con la latitudine, e il Tirreno - comunque lo si guardi - è più Sud dell'Adriatico. I Romani chiamavano il primo "mare inferiore" e il secondo "mare superiore", ed era un'intuizione corretta. Savona, per esempio. M'è parsa subito più meridionale di Trieste. E Firenze, più mezzogiorno di Campobasso. Ne consegue che l'Appennino, con la sua muraglia dei lunghi inverni, più che collegare il Nord al Sud, divide lo Stivale per lungo, fra un Nord che è Adriatico e un Sud che è Tirreno. E diventa perciò una frontiera culturale più tosta delle Alpi.

Dopo Sella di Conza la vita prorompe senza regole. Fiori enormi di bellezza esagerata, quasi oscena. Gechi sui muri e i lampioni. Ramarri verdissimi, protervi come camaleonti. L'aria è già quella grassa, napoletana, degli acquitrini da bufale. E le donne, soprattutto, non sono più icone greco-bizantine. Ora s'arrotondano, sporgono, debordano, sobbalzano, spagnoleggiano, arpionano, trionfano. Labbroni, attributi e sguardi sanciscono la definitiva restaurazione del potere femminile rispetto al celodurismo padano. In autostrada non lo capiresti mai.

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La selvaggia muraglia dei Monti Alburni mi chiama verso il Cilento, oltre l'autostrada. "Vieni" mi ha detto al telefono l'antropologo Marino Niola, che in Cilento passa l'estate, "vieni se vuoi capire la terra delle grandi madri", e mi parla di un santuario a 1700 metri di nome Santa Maria di Velia, in arabo Gelbison, "un'Alta Signora cui i devoti portano in pellegrinaggio cuori di pietra e le ragazze da marito cinti fatti di candele. Si sale di notte, è favoloso".
Ma passare l'ostacolo della Napoli-Reggio Calabria, proprio in quel punto, è impossibile. Tutto - traffico, svincoli e segnaletica - è contro di te che ti ostini a rifiutare la linea del tuono che ti sovrasta con colonne di autoarticolati in bilico su immensi piloni. Per trenta chilometri, in quel punto, verso Sicignano, non hai alternative all'autostrada. Non c'è nulla che le corra accanto.

Ma Nerina non si arrende. Ci mette mezz'ora per trovare un sottopasso da bracconieri prendendo una stradina contromano. Poi, oltre il mostro di cemento, comincia il silenzio. La valle del Tanagro, solitaria come la Cecenia, e la stradina a tornanti che s'arrampica verso Postiglione - nome che per una Topolino è un invito a nozze - sulla dimenticata Statale 19. Non c'è letteralmente nessuno.
Potrei essere in Colombia, o sulle isole di Capo Verde. E invece è l'Italia dura, estrema, di Carlo Levi e di Cristo che s'è fermato a Eboli. L'Italia lucana di "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti, e di "Tre fratelli" di Franco Rosi. Alla radiolina, le notizie sui disastri in Medio Oriente arrivano come un'interferenza che non disturba il pulsare del tempo.

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A pensarci, questa storia delle dee madri mi tormenta da Norcia, alle porte del Lazio. Tutto è cominciato in fondo a una valle cieca, in mezzo a una foresta da lupi, quando m'è apparsa la guglia di Roccaporena dove Santa Rita avrebbe spiccato il volo verso la vita di devozione. Fu indimenticabile. Nonostante l'orrore cementizio del piazzale, i venditori di caciotte e l'orrida teca in vetro che violava la sommità del pinnacolo, nonostante i telefonini, le pie donne ansimanti verso la cima e i pullman con ventole al massimo, Roccaporena emanava una sconvolgente energia.

In cime pensai: non c'è curia o Vaticano capace di tenere a bada la potenza del sacro in Appennino. Sul libro dei visitatori, i sopravvissuti alla scalata, in gran parte donne, non annotavano i loro nomi o brevi preghiere ma circostanziate richieste di guarigione da malattie, talvolta ricche di particolari intimi. Alle donne del Sud non importava tanto chi fosse Rita e cosa fosse scritto di lei. A loro bastava che Rita fosse femmina. Solo una donna poteva portare salute e fertilità, recapitare le loro richieste alla Grande Signora oltre il muro dell'invisibile.

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"Dio non esiste al Sud", esordisce a effetto Marino Niola, che incontro a Vallo di Lucania prima del salitone alla Madonna di Velia. "Qui Dio è un concetto troppo astratto. Esistono tanti dei, energie sacre legate a particolari luoghi o dipinti miracolosi. Quanto a Cristo, c'è: ma deve tutta la sua importanza al fatto di essere figlio di Maria. Maria è il corpo, e qui al Sud il sacro passa per il corpo. Maria è tutto, fertilità, famiglia, l'ordine".

Prendiamo il fresco sotto un gelso, accanto a una bottiglia imperlata di vino bianco, e Marino naviga tranquillo per i suoi oscuri arcipelaghi. "Sai cosa m'hanno detto un giorno a Napoli? Che Cristo è uno che ha fatto del male alla mamma, e anche per questo è morto in croce...". Diavolo d'un Niola, in altri tempi sarebbe finito al rogo. "Persino la criminalità organizzata - incalza - ha un lessico familiare materno. Si dice: mamma comanda e picciotto fa. Il capo è mammasantissima. Il pizzo si chiama "olio per la madonna". E i boss sono, a modo loro, religiosissimi".
"L'autentico vestibolo del mistero italico è qui, in Campania, al museo di Capua, nella sala delle Madri. Monoliti anche di due tonnellate, un'assemblea terrificante di donne in pietra, con in braccio neonati. Alcune ne hanno sei per parte. Ecco, lì sei di fronte all'abisso, alla potenza generatrice del sacro. E poi - incalza - nelle contrade interne della Campania felix inizia la trasfigurazione del mondo pagano in quello cristiano...".

Finiamo parlando dei morti che non parlano più ai vivi, perché oggi "ci sono troppe luci", e della gente di Crotone che ha una grave allergia alle fave, proibite secoli fa - guarda caso - dal loro conterraneo Pitagora "per il rischio che i trapassati risalissero in superficie dal gambo". Basta Marino, basta, o stanotte non dormo.

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Dura salire al santuario di Velia ignorando il richiamo della costa delle Sirene verso Palinuro. Sono sderenato dalla Topolino, un tuffo salvifico ci starebbe. Ma non cedo. "Ave Maria e avanti, la madonna ti aspetta" sta scritto sui tornanti, e Nerina va, ansima, tira di prima, s'infila tra faggi tenebrosi, arriva col fiatone a quota 1700, sotto un gigantesco monolito appoggiato sui boschi come un missile sulla rampa di lancio. In cima a tutto, una gigantesca croce a traliccio, a sfidare i fulmini.

Orsacchiotti, gelati, trombette, ciambelle, chincaglieria d'ogni tipo. Ma in fondo alla salita, oltre i chioschi, nella penombra del santuario, c'è Lei. Con infinita pazienza una suora apre la teca di vetro ai pellegrini. Dentro, non un'icona rigida ma una scura bambolona paffuta, dolce, conciliante e per nulla severa. "Sono 35 anni che sto quassù" mi dice la suora. "Tutta la mia gioventù l'ho spesa qui". Fuori, dalla muraglia perimetrale, la vista sul Tirreno e la schiena d'Italia che galoppa verso le Calabrie, dove finirà il viaggio.
Dalla cima, una favolosa trigonometria femminile. A Oriente il santuario della Madonna della neve. Verso Avellino la Vergine del Monte Partenio, ex santuario della dea Cibele narrato da Virgilio. A Ovest, verso il mare, l'Heraion di Paestum, dove si venerava la dea del melograno, oggi Madonna del granato. Torno a valle con la certezza di avere solo sfiorato il senso di questi luoghi.

(19 agosto 2006)


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