La strada che sbuca dal passato

Se volete capire la meraviglia delle vecchie strade italiane, fate la Statale 18, dimenticata dal traffico, tra Vallo di Lucania e il Golfo di Policastro. Rotonde virate a mezzacosta tra gelsi e ciliegi che chiazzano di sangue l'asfalto, uliveti verde metallico nel vento. Fontane zampillanti e paesi nel posto giusto, bar sulle curve a gomito (strepitoso quello di Montano Attilia!) e gente che saluta come al Giro d'Italia. La Topolino è felice, morde il suo terreno preferito, tra ginestre, felci e paracarri, si mostrifica in giochi di cambio, acceleratore e frizione senza sfiorare mai il pedale del freno.



Incrocio un'Ape con un anziano. Davanti a un'Ape è inevitabile fermarsi: dietro c'è un mondo. Sostiamo in mezzo alla strada per parlamentare dai finestrini aperti. Tanto siamo perfettamente soli, in una giungla verde. "Che vulite, la campagna è abbandonata, nessuno face niente", lamenta il nostro, che si chiama Ferdinando e va a zappare il suo uliveto. "I cinghiali, disastro tremendo, ripuliscono tutto, faggiolo, patate, verdure; la campagna nun è 'cchiù nostra. Bisognerebbe recintarla, ma se la vuoi chiure (chiudere, ndr), nun te lassano chiure, qua la politica è fatta per dire de no".

Facciamo picnic sul bordo della strada, il tipo offre salame piccante, pane casereccio e un fiasco di rosso acidulo con acqua fresca che mi disseta in un attimo. Attorno, solo silenzio e passeri. Ah Fernando, l'Ape, la Topolino del 1953, il vino e il salame. Momenti perfetti, che valgono un viaggio. Penso all'orrido rettilineo che risucchia gli italiani e dal profondo mi sgorga il ringraziamento. "O autostrada, madre di tutti gli ingorghi, grazie. Hai svuotato l'Italia, ma dietro una foresta vergine di rovi, l'hai lasciata intatta come il castello della Bella Addormentata". Sì, sulla statale 18 il tempo si è fermato.

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Lagonegro, Lauria, Mormanno. Che cosa sono per l'Italia gommata? Niente. Caselli autostradali. Svincoli. E invece, appena fuori dall'autostrada, eccoti un mondo arcano di abbazie e forti arabo-normanni. Tra il Cilento e il Pollino, nel breve lembo di Basilicata che tocca il Tirreno, la schiena del Paese diventa pazzescamente movimentata. La strada s'impenna, devia, s'intorcica su se stessa e non capisci mai bene verso dove. La vecchia Topolino la percorre come la puntina di un grammofono su un disco a 78 giri, ti riporta all'Italia di prima del miracolo economico. Prima di "Lascia o Raddoppia", della Seicento, delle autostrade e degli appuntamenti di famiglia negli autogrill.

Ci ho messo un po' per capire il sesso della Topolino. Maschio o femmina? Qui mi passa ogni dubbio. Femmina. Dai bar i giovanotti le fischiano dietro. Agli incroci perfino i camion la lasciano passare anche senza precedenza. Gli uomini adulti la guardano con stupore infantile e un po' d'invidia, vorrebbero giocare ancora una volta nella loro vita. Ma la controprova sono le donne mature. La squadrano con sospetto, talvolta con fastidio. Oppure fanno finta di non vederla. Fiutano nel trabiccolo il civettuolo magnetismo sull'altro sesso. Sentono la sua sensualità familiare e nello stesso tempo birichina.

Da un benzinaio a Lauria spiego a due divertiti giovanotti il corretto "bon ton" per sedersi alla guida con la portiera che s'apre al contrario. Il corpo non fa il solito mezzo giro sulla sinistra, ma tre quarti di giro sulla destra; un leggero giro di valzer con avvitamento elicoidale verso il basso, con morbido atterraggio di culo sulla poltroncina bassa, quasi rasoterra. Una goduria sconosciuta ai gommati contemporanei. Sì, la Topolino è definitivamente un nido che accoglie e consola. Una donna.

È proprio allora che mi chiamano dalla Fiat, quartier generale di Torino. Il dipartimento auto storiche, che garantisce la manutenzione della macchinina "on the road". "Come va col mezzo?" chiede il responsabile. "Benissimo" rispondo, e mi vien già da ridere. "Ma non si permetta più di chiamare "mezzo" la mia auto. Prima di tutto è una signora. E la signora batte strada a meraviglia".

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Immagina due Carabinieri in attesa su una strada deserta. Metti la Statale 19, tra Lauria e Mormanno, che deserta lo è da vent'anni: da quando l'autostrada, parallela e gratuita, le ha risucchiato tutto, anche la vita, anche il nome. La Statale 19 è diventata "ex Statale 19", rifilata alla provincia di Potenza nel segno sfolgorante della devolution. Ebbene, qui due CC vedono una Topolino blu del 1953 scendere allegramente dal passo di Prestieri verso le Calabrie. Che fanno? La fermano. Troppa curiosità, per un posto dove non succede niente. Dunque paletta biancorossa fuori, e segno di accostare. Il problema è che la Topo non è in grado di fare infrazioni, va troppo piano. Non c'è straccio di motivo per giustificare l'alt.
Momentaneo imbarazzo degli uomini in nero. "Con questo, ci parli tu", sussurra il più timido dei due. Hanno l'aria mite, nessun segno d'arroganza borbonica. Capisco che tocca a me toglierli dal conflitto. Tiro fuori sorridendo il libretto, che contiene mezza storia d'Italia, un albero genealogico di proprietari. "Dovete assolutamente darci un'occhiata - dico - ha cinquant'anni, non credo abbiate visto mai niente di simile". È fatta, i due sorridono, maneggiano con infinita cura il foglio venerando segnato dal sole e dalla pioggia, possono continuare nel gioco. Fingere che sia un controllo vero, che lo Stato esista su questi monti da briganti, e che la Statale sia ancora Statale. Su una scarpata, il paese di Castelluccio ci sovrasta con mille occhi. In valle, una chiesa trasmette con altoparlanti il canto di un prete, e da lontano pare il richiamo di un muezzin.

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Statale 19, che favolosa risorsa. Gli italiani sono degli imbecilli a non saperla usare. Ma che fa la politica? Che fa l'Anas? Se Francia e Spagna avessero strade simili, troverebbero mille modi per valorizzarle, adattarle alla mobilità "dolce". La macchinina blu va, ronza in una solitudine afghana. Qui potresti pattinare, ma che dico: giocare a bocce, a biliardo, berti un Cynar contro il logorio della vita moderna su un tavolino sistemato sulla mezzeria. Italiani che vi serve andare lontano, in Oriente? L'avventura è qui, in Appennino.

Sulla 19 passa un'auto ogni quarto d'ora e tra un'auto e l'altra scende un incommensurabile silenzio. Con la capote aperta senti l'odore del bosco, ti prendi un'ubriacatura d'aria e di sole così forte che scivoli in uno stato di ebete euforia. Mi accorgo che non è solo il risucchio dell'autostrada che genera questo vuoto. È anche il risucchio delle due coste balneari, la jonica e la tirrenica, che qui sono vicinissime e pure equidistanti dalla statale. Una congiuntura favorevole unica. Qui sei fuori dal mondo già a un tiro di schioppo dal mare.

Sono rotto, i muscoli della schiena pesanti come di piombo, le mani indurite. Guidare un'auto senza servosterzo e servofreno è una fatica da camionista. Mi rendo conto di aver fatto una cosa pazzesca. Sono su strada da tremila chilometri e 40 mila curve. Come il Caucaso fra Georgia, Cecenia e Azerbaigian. Più della strada del Karakorum che da Peshawar ti porta alla mitica Kashgar delle carovane, ai bordi del deserto del Taklamakan. Un contadino in canottiera e con la zappa in mano rimane a bocca aperta a vederci passare, immobile come la statua della libertà.
La notte, in una locanda di Mormanno piena di fotografie di notabili Dc sepolti dal tempo, m'accorgo che anche i sogni hanno preso l'andamento altimetrico del viaggio. Valicano montagne inaccessibili, seguono un ottovolante, imboccano neri precipizi, diventano insondabili come abissi. Musiche si disincagliano dal fondo della memoria. Per esempio: "Con la pio, con la pio, con la pioggia che fa / i cani non trovan padroni". L'ombra nera di Capossela che mi segue nel buio.

(20 agosto 2006)


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