Inseguiti dallo scirocco

Può essere un'impresa attraversare Mormanno, porta delle Calabrie per chi viene da Nord. In questo paesone già greco nell'anima - ma incupito da selvagge montagne e funebri chiese barocche - la Statale 19 diventa un budello affollato, stretto tra farmacie, bar, negozi alimentari e auto parcheggiate di traverso. Praticamente, Calcutta. In un attimo anche la Topolino è in trappola, ferma tra la fiancata di un autoarticolato e la porta d'ingresso di una panetteria, dove una pattuglia di nere comari resta intrappolata per cinque lunghi minuti.



Non so se qui la gente viva con filosofia greca, pazienza buddista o fatalismo islamico: fatto sta che in queste Forche Caudine della Calabria nessuno protesta per gli ingorghi. L'intasamento, al contrario, diventa spettacolo. Nei cinque minuti in cui la mia portiera destra diventa l'unica via d'uscita del negozio (le comari potrebbero rompere l'assedio solo passando attraverso l'abitacolo), ho tutto il tempo di farmi una chiacchierata con gli indigeni appostati sullo stradone. Una scenetta anni Cinquanta che il mio asinello a quattro cilindri, figlio della stessa epoca, registra con perfetta cognizione di causa.

"Buongiorno. Da dove venite?".

Da Trieste.

"Con questa?"

Sì, con questa.

"Giuseppe! Vieni qua, questo viene da Trieste!".

Trieste, che qui è come dire Capo Nord.

Giuseppe arriva, fischia alla Topolino come se avesse visto una bella donna, s'infila nello spazio millimetrico tra il camion e il mio finestrino, incurante dell'ingorgo che ormai blocca l'intero paese, e, senza dire una parola, sfrega il pollice e l'indice della mano destra per mimare la domanda delle domande. Quanto costa.
Intanto, l'occhio millantatore aggiunge: te la compro. E subito.

Ovvio che devo stare al gioco e rispondere a gesti. Alzo lentamente gli occhi al cielo, apro la bocca come per dire "aaah", e con una mano disegno una lunga spirale ritmata in levare. Traduzione: cumpà, non avete un'idea di quanto. Aspetto la risposta, e intanto con la coda dell'occhio vedo le donne in nero bloccate nella panetteria. Ci guardano dall'ombra come civette sul comò.

Intanto tre pensionati si schiodano dal muro, dove sono parcheggiati accanto a una Cinquecento rosso mattone. L'arrivo di Nerina è un evento da non perdere. In due entrano nel gioco della contrattazione sul prezzo di vendita. Il terzo invece resta zitto, quasi turbato, fino allo struggimento. Forse, vedendo la Topolino, ha ricordato qualcosa. Lo vedo che cerca a tentoni nella memoria. Come Proust davanti al profumo del famoso biscottino. "Madeleine" si chiamava. Un altro bel nome per la mia compagna su ruote.

***

Pauroso è l'attraversamento delle Calabrie descritto da Stanley T. Williams nel suo L'Italia in Topolino all'inizio degli anni Cinquanta. Salite e discese senza fine, alberghi gestiti da incapaci, colazioni che non arrivano mai. In posti simili, scrive l'americano in viaggio con la moglie, la macchinina era "la nostra unica amica". "Entrammo e uscimmo senza rimpianto da Lagonegro, Castelluccio, Mormanno e Morano mentre gli abitanti guardavano senza entusiasmo la nostra auto targata Roma. In Calabria eravamo dei veri stranieri e non ero certo che la gente provasse nei nostri confronti sentimenti amichevoli".

A me i calabresi stanno simpatici per il solo fatto che mezza Italia ti mette in guardia contro di loro. In Campania, Puglia e Basilicata, sapendomi diretto agli Stretti, la gente mi ha asfissiato di storie sulla fosca reputazione della regione più "arretrata" del Mezzogiorno. In Calabria, dicevano, tutto era peggio, "persino i cani". Ma con l'esperienza ho imparato a ignorare simili avvertimenti. Attento ai cani bulgari, mi dicevano i serbi. Occhio ai cani-pastori afgani, ammonivano i doganieri alla frontiera iraniana. Ovviamente incontravo ogni volta animali mansueti che smentivano le profezie.

***

Piana del Crati, caldo da vipere, cielo schiantato dallo scirocco. A Catania l'amico Giuseppe Lorenti, che mi raggiungerà in Aspromonte, segnala 42 gradi all'ombra e l'Etna che non rimanda frescura nemmeno di notte. Dai tre gradi con nevischio del Gran Sasso fino a qui, la Topo sembra avere attraversato un continente. A Spezzano Albanese, le scritte in lingua arbresh confermano l'impressione di un safari in un continente alieno. Nel paesaggio ogni ordine è sovvertito: all'anarchia edilizia dei villaggi si contrappone la perfetta geometria degli uliveti, curatissime scacchiere d'argento su terra giallo ocra. E' tutto un po' strano.
Cerco un chinotto, ma non c'è un bar aperto. Compro un melone, e la commessa dolcissima mi spiega che qui nessuno va al bar. Si mangia a casa, punto e basta.

Salita verso la Sila e il paese di San Demetrio, un nome greco che promette finalmente bibite, frescura e tovaglie bianche, ma il caldo aumenta ancora. La strada è deserta, profumata di origano. Unica cosa viva, una postina moracciona su Panda che mi supera, a ogni consegna si fa superare, poi torna a passarmi davanti. Ora desidero solo un grande solitario albero per farmi il mio melone, che a ogni curva rotola tra la portiera e l'albero di trasmissione. In Calabria i ripari dal sole sono pochissimi, e il viaggio si riduce a una sequenza di segmenti tra un'ombra e l'altra. Qui un leccio, lì un pino marittimo, lì un muro sbrecciato. Non c'è abbazia o ponte romano che conti di fronte al miraggio dell'ombra.

Poi, sulla Sila, la frescura è anche troppa. Un ben di dio da non credere. Una Roncisvalle di querce, abeti altissimi e dolci praterie. Ma anche qui, come sul Crati, qualcosa di strano. Niente vacche, niente capre, niente pastori. Mi ritrovo a percorrere un Eden privo di vita animale; l'esatto contrario dell'Abruzzo. E poi, apparentemente, nessuno lavora. Ovunque, un clima da villaggio vacanze, da siesta assoluta. Nei boschi, voci di allegre congreghe di soli uomini. Forestali - addetti a posto fisso della prima azienda regionale - che se la spassano alla grande in attesa che il giorno finisca.

***

Cominicia la discesa verso le terre roventi dell'alba. Lo Jonio, sul lato di Crotone, dove come in nessun altro luogo puoi vedere il sole sorgere dal mare. Sotto i mille metri finiscono le foreste, cominciano gli eucalipti e nugoli di mosche annunciano strati di caldo africano.

Il cielo è di nuovo incandescente, odora di stoppie bruciate, la Topolino diventa un forno, puzza di cuoio, gomma e olio minerale. Comincia, anche, il tormentone della capote. Se la apro, mi ustiono. Se la chiudo, mi cucino al forno. E i finestrini, che si aprono in orizzontale, non lasciano un varco superiore ai venti centimetri.

San Giovanni in fiore! Nessuno penserebbe che un posto con un nome simile, al limitare delle foreste della Sila, sia un grumo metropolitano di edifici, un inestricabile labirinto di cemento. Invece, San Giovanni in Fiore è esattamente questo. Una tumultuosa cascata edilizia. Il paese ha una sua paradossale, franosa coerenza, dal cimitero, in alto - un condominio di morti sovrastato dai piloni immensi di una superstrada - fino all'abbazia in basso, ovviamente chiusa, priva di indicazioni e nascosta da un luna park in disuso.

Alla radiolina sento una dichiarazione della presidenza regionale. Dice: stiamo perdendo il controllo del territorio di fronte alla delinquenza organizzata. Una resa. M'accorgo che l'Italia non si ritira solo da Nassiriya, e sta giocandosi in casa partite altrettanto toste. Scendo a precipizio verso oriente, in un cielo senza colore, tra bei villaggi arroccati e sconosciuti. Sono cotto di caldo e di montagne, vorrei solo levarmi la scarpe e incollare i piedi a un fresco pavimento in pietra. Vorrei, ma non posso. L'auto ha sete, devo fermarmi per mettere acqua nel radiatore. In questa tappa infinita ha bevuto in continuazione. Scende la notte, per la prima volta ho paura di non farcela.

(21 agosto 2006)


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