Sulla bocca del vento

Ventiduesimo giorno, dove la Topolino beve e il viaggio rischia di finire fino a che non interviene Santa Maria Assunta. Quaranta infuocati chilometri tra Sila e Jonio. Poi, finalmente, arriva il decollo e siamo già nel punto più stretto d'Italia.



Il tramonto è negato agli abitanti del Crotonese. La morte del giorno è un evento nascosto, che succede sempre "alle spalle", dietro le negre foreste della Sila. E così, in posti come Santa Severina - una sorprendente acropoli a una decina di chilometri dallo Jonio, dove ho trovato da dormire nella prima, infinita tappa calabrese - tutto è segnato dall'attesa dell'aurora, il fuoco greco che arriva di corsa sulle praterie del mare, portato dal vento di Levante. Il famigerato Levantazzo descritto da Antonio Mallardi.

Ma oggi, nella terra senza tramonto, non arriva nemmeno l'alba. Tra gli ulivi s'è acceso solo un'aureola di luce gialla, poi bianca e infine grigia. Oggi il sole non sorge sullo Jonio, è affogato nella foschia prima di nascere. Dove sono? Nel New Mexico? A Karachi, in Pakistan? Ho gli occhi rossi di polvere, come il pilota di un biplano della Grande Guerra. E dopo tremila chilometri di viaggio mi sento così lontano da casa che, facendo colazione, mi meraviglio di sentir parlare la mia lingua nei tavoli accanto.

La notte non ho chiuso occhio. Verso l'una, esasperato dalle zanzare, ho sentito la musica di un concertino sulle mura del castello, mi sono alzato, ho ripreso la Topolino e sono andato a vedere. Tutto il paese era sveglio per lo struscio. All'una la vita incominciava. Era l'ora del dopocena, le famigliole arrivavano con nonni e bambini. E la piazza, una balconata superba fra torrioni e chiese barocche, era coperta di tavolini, giovanotti in tiro, anziani intenti nella briscola, ragazzine al pascolo sotto gli occhi dei genitori.

Ho finito per dormicchiare su una panca in pietra, con i piedi scalzi appoggiati al marmo fresco di una chiesa. Intorno, niente televisori, discoteche, urla sguaiate. Solo brusìo rassicurante, tintinnìo di bicchieri, e una bastardina che mi si è accucciata accanto. Di nuovo, la Topo m'aveva portato negli anni Cinquanta. Ero a Salamanca, Burgos. O forse nella Grecia d'una volta.

***

Dopo quaranta infuocati chilometri tra Sila e Jonio, ho la certezza che il viaggio possa finire così, per esaurimento, davanti al bancone del bar-gelateria "Crazy's caffè" di Cropani, dove arrivo così disidratato che mi manca la voce per chiedere acqua. Difatti, il colpo di grazia arriva un attimo dopo, allo sportello Bancomat del Credito Cooperativo della Calabria, che non dà contanti ma in compenso mi accieca con un display sadicamente orientato controsole.

Sono esausto. Il cervello è un uovo alla cocque, la Calabria uno specchio ustorio, tutta la natura in apnea. Il radiatore beve come una spugna, ormai non distinguo più la sua sete dalla mia. E Capo Sud, epilogo di questa demenziale Topolineide, s'allontana anziché avvicinarsi. Maledetto Zenone - sì, il filosofo della Magna Grecia, appenninico del Cilento - quel fottuto impostore che ci ha convinto che la tartaruga arriva prima di Achille! No, la mia tartarughina non arriverà da nessuna parte. Tirerà le cuoia sullo Jonio.

Invece, il miracolo arriva. Lo fa Santa Maria Assunta, una chiesa dal cui portale esce un inatteso torrente d'aria fredda. Dentro, i confessionali barocchi, momentaneamente spostati dalle pareti, sembrano galleggiare nella navata. Ne scelgo uno. E' fresco e comodo, come una barchetta. Ascolto il corpo che si raffredda e la mente che si rimette in moto. Riesco a esprimere un pensiero: i preti la sapevano lunga, il confessionale era un vero lettino da psicanalista.

La commessa del vicino negozio di verdure, dove compro un profumato melone, mi spiega che Cropani è il posto più bello del mondo e lei non lo cambierebbe con nessun altro. Gongola: "Guardi quante chiese abbiamo". Oltre all'Assunta ci sta San Giovanni, ci sta il monastero dei Cappuccini, ci sta l'antichissima Santa Caterina, e poi la Madonna della Catena, e poi la vecchia Sant'Anna ora sconsacrata, e poi ancora ancora ancora. Cripte, cunicoli, campanili. E quella superba posizione alta sullo Jonio delle vele nere e dei pirati.

***

Finisco sulla costiera per assenza di alternative, e subito l'abitacolo comincia a tremare. Vento! Improvviso e benedetto. A Roccella Jonica si spalanca un altro cielo. La Topolino è felice; viaggia controcorrente, se potesse si alzerebbe come un deltaplano. Sono nel punto più stretto d'Italia: tra qui e la piana di Lamezia sull'altro mare, appena trenta chilometri. Forse per questo tra la Sila e le Serre - avanguardie d'Aspromonte - la corrente d'aria è così forte.

"El vento xe volubile / la donna ancora pezzo / e mi che son in mezzo / no so più cossa far". Il corpo torna a temperature umane, canta a squarciagola canzoni di casa sua. Borgia, Girifalco, Cortale. Boschi, fontane, torrenti. D'un tratto, la Calabria gronda d'acqua. Quanti Appennini ho incontrato in Calabria! I Carpazi (la Sila), gli Emirati arabi (Crotone), la Grecia (la costa di Lamezia), le Prealpi francesi (il fresco spartiacque delle Serre). Tutto in una giornata sola. E su tutto, un'inquietudine sismica scritta nel paesaggio.

A Maida, imbarco sulla Topo Antonio Milano, professore di lettere, gran zazzera brizzolata piena di pensieri e squassata dal maestrale. Mi spiega subito perché da queste parti Eolo è così inquieto. "Amica mio, sei sulla Bocca del vento. Il posto dove l'aria del Tirreno accelera e plana sullo Jonio beccando le navi di sorpresa. A vucca do vientu...". E dice "vientu" con l'accento sulla "i", alla greca, raddoppiandone l'energia cinetica.

Racconta Antonio che nel 414 a. C. una flotta spartana in guerra con Atene fu respinta - secondo Tucidide - dal vento tirrenico e costretta a tornare a Taranto. "Impossibile" sentenziarono gli studiosi. "Uno che naviga in Tirreno non può tornare a Taranto per un fortunale. Troppo lontano". E così decisero che nel racconto del greco c'era un errore di trascrizione. Poveri topi di biblioteca: non conoscevano la geografia. Non sapevano che sull'istmo di Squillace il vento di Nordovest sconfina nell'altro mare.

***

"Quel fottuto, disgraziato, curnuto, m'ha rotto i cugghiuni". "Sì, quel traditore, ingrato, la pagherà tutta". A cena, nella sala da pranzo dell'hotel di Serra San Bruno, c'è un solo tavolo occupato oltre al nostro. Un tavolo con otto uomini che consumano una pubblica condanna contro un assente. Gli anatemi rimbombano nella sala per dieci, venti minuti. Ogni tanto la combriccola sembra trovare altri argomenti, ma solo per poco. La pioggia d'insulti riprende per un'altra nezz'ora. Nessuna segretezza, nessun conclave. Quegli insulti sono fatti per essere sentiti. Per costruire il vuoto attorno a qualcuno che ha sgarrato.

Di nuovo curnuto e cugghiuni, cugghiuni e curnuto. C'è un vecchio che urla più di tutti, e quando urla lui, gli altri tacciono. E' il capofamiglia, indiscusso e indiscutibile. I camerieri vanno e vengono, portano montagne di cibo, non fanno una piega. Come se non vedessero niente. Il nostro imbarazzo cresce, non sappiamo più che atteggiamento prendere. Il coro greco sull'ingratitudine raggiunge il culmine, ormai l'occupazione acustica della sala è totale. La completano i figli piccoli della masnada, che hanno già mangiato e giocano a nascondino urlando come fossero a casa loro.

Chiediamo da dormire, ma ci rispondono che è tutto pieno. Strano: non c'è nessuno oltre a noi e la Banda dell'anatema. Mezz'ora dopo l'enigma si risolve. Arriva un pullman, pieno di ragazzi sui diciotto-vent'anni, che occupano rumorosamente il resto della sala. Gita scolastica? No, la scuola è finita. Ma allora cos'è? Lo spiega l'autista della corriera. "E' la maturità dei privati". Cioé: gita in montagna con promozione garantita, nel premiato diplomificio di Serra San Bruno, legalmente parificato e legalmente finanziato.

La notte sognerò Pinocchio, e i somari-bambini nel Paese dei balocchi.

(22 agosto 2006)


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