In punta d'Italia

Compare Saro mi disse una notte: che senti nel bosco? Io dissi: o ventu sento. E lui: scimunito, questa acqua è. Aveva ragione, c'era un torrente. E all'alba lui era lì, nel posto giusto a pescar trote". Sono uscite le stelle e Antonio Barca, proprietario, costruttore e gestore del rifugio di Piani di Carmelìa, quota 1260, racconta come ha imparato a conoscere la Montagna Sacra dei calabri. L'Aspromonte, alto come un transatlantico nel mare senza fine.



Antonio ha fatto tutto da solo. Ha trovato il terreno e costruito il rifugio con oltre venti letti. Oggi ha la schiena rovinata dalla fatica ma non si lamenta, è felice di vivere quassù. Ha acceso il fuoco, a tavola c'è sua moglie Marie Thérèse, c'è Diego Festa, la guida scesa dal cielo che m'ha aggiustato la Topolino, e l'amico Giuseppe Lorenti che m'ha raggiunto come un falchetto da Catania. La macchinina è fuori al fresco, sporca e felice.

"Mio padre e compare Saro mi hanno insegnato a conoscere la montagna, a muovermi senza mappe di notte ascoltando il rumore dell'acqua, a trovare le tane delle martore, a cacciare i ghiri dopo la festa dei Morti. Ah, i ghiri! Una leccardìa sono, la carne più delicata del mondo... Ho imparato tutto da bambino: vedevo ghiande a terra e sapevo se le aveva rosicchiate il ghiro, il topo, il moscardino o la ghiandaia. Questo è il mio mondo, la vita mia".

Per un attimo scende il silenzio. "Ma è dura quassù, Paolo. Non sai quanto è dura. Le colombe partono e i corvi restano. L'emigrazione è ripresa alla grande. Ma io ho detto no, non sono partito, ho investito qui tutto quello che avevo. Questa montagna è una favolosa risorsa per i giovani di buona volontà. Ma quasi nessuno mi aiuta. Pensa che un giorno è venuto qui il presidente del parlamento danese, con i figli e il sacco a pelo. E' rimasto folgorato dal luogo. Te lo vedi un politico italiano che fa la stessa cosa?".

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La notte, nel dormiveglia, sento un cric, cric, cric, lento e regolare come un orologio a bilanciere nel silenzio. E' la voce del tarlo. Non posso chiudere occhio. La Calabria mi pare la quintessenza dell'Italia, cioè di quella selezione negativa della specie innescata dalla santa alleanza dei mediocri e degli imboscati.

Troppa bella gente dimenticata. Trovo una vecchia lettera di Francesca Viscone, di Lamezia Terme, che m'ha scritto tempo fa sulle terre infuocate dello Jonio.
"Ho conosciuto - leggo - un anziano di San Luca, nella Locride. Aveva uno sguardo intenso pieno di interrogativi, di immagini e di incanti. Era un inventore, aveva costruito diversi strumenti strani. Arrivò con una busta piena di queste curiose invenzioni. Ce ne diede una, ma non voleva soldi, era solo un segno di ospitalità. Paesi come San Luca sono pieni di intelligenze così... Una genialità sprecata, male espressa, male indirizzata... Siamo pieni di geni trasformati in scemi del villaggio, e di uomini fieri trasformati in inetti. Di inventori che non inventano niente e fanno regali agli sconosciuti".
Il tarlo ha smesso di rosicchiare. Un po' di vento nella foresta. Mando un sms a Roberto Righi, proprietario della Topolino: "Nerina pronta all'ultimo balzo. Domani Capo Sud". Premo "invio" e sparo verso le stelle.

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Saliamo a piedi sopra la forra del torrente Ladro, il pendio è di una dolcezza svizzera fin sulla cima del Monte Cocuzza, vetta d'Aspromonte. E' l'ultimo "Pen", l'ultima delle dee di pietra che danno il nome alla schiena montuosa d'Italia. Un Cristo in bronzo, portato in elicottero dalla base Usa di Sigonella, governa una vista immensa sulle Eolie, l'Etna e la terra dei bronzi di Riace. La diversità tra i due versanti, Jonio e Tirreno, è sconvolgente. Il primo: abbacinante, scarnificato, battuto da piogge violente e siccità africana. Il secondo: boscoso, verdescuro, percorso da torrenti regolari e piccoli canyon.

La guida, per impressionarci, ci disegna la mappa dei sequestri di persona. "Ecco, laggiù fu nascosto Soffiantini. Lì, un po' più a destra Casella. E lì in fondo hanno trovato, quattro anni fa, le ossa di un fotografo fatto sparire negli anni Ottanta". In mezzo a questa topografia ansiogena, il santuario di Polsi, nascosto tra i dirupi, dove si bivacca, si sacrificano i capretti e dove, quest'anno, il 2 settembre, la Madonna sarà incoronata con una festa particolarmente solenne. Fino a ieri, per la Madonna si sparava in aria. Gli uomini d'onore della Locride facevano "pam pam" come gli Schuetzen in Sudtirolo.

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L'arcipelago dei paesi-fantasma che costellano l'Aspromonte sul versante Sud è annunciato, tra Delianuova e Gambarie, da una cantoniera in disfacimento abitata da vacche libere, in condominio con una repubblica autonoma di maiali. Le bestie vanno e vengono, grufolano e ruminano sulla Statale 183, non hanno la minima paura di noi. Ma il bello, mi raccontano, viene dopo, con le terre nude verso Africo e Roghudi, ultimo resto di una gloriosa terra greca che fu Magna e oggi è il monumento all'abbandono.
Anche lì le bestie hanno preso il posto degli uomini. Ad Africo i maiali in combutta con i cinghiali hanno occupato la chiesa vuota. A Roghudi le coturnici hanno fatto il nido in quello che fu il bar. A Pentedattilo, posto di superba bellezza, non c'è più un'anima. Da qualche parte hanno ricominciato a fare le messe in greco, c'è padre Milo che fa il prete-viaggiatore, ma serve poco. Bova si spopola a vista d'occhio. E a Gallicianò se ne sono andati in tanti: anche Kalinera, che dava una mano al papà nell'unico bar del paese. La bellissima Kalinera dal nome greco. Bruna come la protagonista di Mediterraneo.

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Scendiamo verso Capo Sud nella fiumara incandescente di Melito. All'incontrario, è la stessa strada di Garibaldi, quella presa dopo il secondo sbarco, nell'estate del 1862. La spedizione finì subito perché l'eroe dei due Mondi fu ferito dopo Gambarie, sotto un pino biforcuto, oggi monumento in totale e scandaloso abbandono. La Statale 183 spacca l'Aspromonte come una mela, ti spara impeccabilmente a ore dodici verso il Sud astronomico per consegnarti, al millimetro, nel punto più meridionale d'Italia: Melito di Porto Salvo, contrada Lembo. Solo otto metri più a Sud di Pelizzi Marina, che sta poco prima di Capo Spartivento.

Passi la congestione del traffico, la superstrada, la ferrovia, i fichi d'india, lo scirocco, e il punto del secondo sbarco garibaldino è lì, segnato da un'alta stele di metallo. Impossibile che il nostro abbia scelto per caso. Garibaldi era attento ai simboli. Non poteva ignorare che quello era il terzo punto più meridionale d'Europa, dopo Gibilterra e Capo Matapan. La forza magnetica del luogo è tremenda, come Capo Nord in Norvegia. Ha ragione il poeta calabro Enzo Alampi: qui è come se vedessi nella gente mille "bussole di bronzo con le facce orientate a Sud".

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Sera viola con l'Etna oltremare, una birra, una tovaglia bianca, la risacca. La televisione del bar dice che la guerra in Libano può riprendere, mi notifica che per quasi un mese ho vissuto fuori dal tempo. Il viaggio è finito. Finiti i paracarri, gli alberi di more, le case cantoniere, le fontanelle sui curvoni. Nerina è parcheggiata nel sotterraneo di un hotel, domani verranno a prenderla quelli della Fiat per portarla in clinica a Maranello, in casa Ferrari. Sarà dura fare a meno di lei. Ha trasformato le strade di casa in un'avventura, ha visto la neve e temperature irachene, ha scoperto un'Italia pulita e senza voce.

S'è svegliato il maestrale, la punta d'Italia sembra navigare controvento verso Nordovest. L'Etna ora è color prugna, è un dio vicinissimo. E' l'ora in cui il Tirreno si gonfia e preme tra Scilla e Cariddi, forma un fiume che spumeggia nello Jonio. La corrente è tale che ogni tanto strappa dal fondo pesci mostruosi per abbandonarli sulla battigia. Passa una vela al largo. Ha la stessa velocità delle schiume. Sembra ferma.

(24 agosto 2006)


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