Quando il passo è falso

La strada dell'Abetone e del Brennero si addentra nella brigantesca gola del Serchio, infestata dai Tir e dagli spericolati (oltre che bestemmiatori) ciclisti della Lucchesia. Qui è assolutamente vietato forare: la strada è schiacciata fra fiume e montagna e non contempla piazzole d'emergenza. Sopra la capote aperta della Topolino, intanto, la dorsale appenninica lievita, diventa compatta come una cordigliera. Sto tornando in Emilia, con la fastidiosa sensazione di andare all'indietro, in un viaggio che s'avvita su se stesso.



Gli Appennini sono un dannatissimo affare. Non hanno strade di cresta. Non sono fatti per essere percorsi, ma solo per essere traversati in diagonale. Vie del sale, di pellegrinaggio o di commerci, strade di eserciti, tunnel autostradali, alte velocità ferroviarie, piste di bracconieri: tutto passa trasversalmente e niente in longitudine. La densità di passi è pazzesca, ce n'è uno ogni cinque chilometri. Cisa, Futa, Radici, Furlo: è lì che si concentra la storia d'Italia.
Pazienza che ti ritrovi a sbandare come un ubriacone da un varco all'altro della muraglia. Poiché in questo slalom tra i due versanti non hai belle strade a mezzacosta, ma un sistema a pettine di profonde valli parallele, per andare dall'una all'altra devi imbarcarti in un tormentone di saliscendi supplementari. A quel punto perdi l'orientamento, il tuo slalom gigante si complica, l'andatura si spezza in dislivelli tremendi, e ti scopri intrappolato come un insetto nel mantice plissettato di una fisarmonica. Sbagliare passo, come ora vedremo, può essere una catastrofe.

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Si narra che quando il duca di Modena e la duchessa di Lucca ebbero collegato i loro dominii con una nuova, acrobatica strada attraverso il passo di Foce a Giovo, i due si incontrarono sul crinale per inaugurare la grande opera, e che la duchessa toscana, scoprendo la calvizie galoppante del suo nobile dirimpettaio, disse, con perfido giro di parole: "caro amico, quanta neve sul monte". Al che il duca, gelido: "Amica cara, se c'è neve al monte, le vacche vadano al piano". Una battuta che, a distanza di secoli, ancora fa ridere i garfagnini.

Sono storie così che orientano i viaggi. Il mio si orienta fatalmente sul passo di Foce a Giovo, del quale già pregusto l'aria fine e le cime dai nomi leggendari: Alpe delle Tre Potenze, Monte Albano, Sasso Tignoso. Niente Abetone dunque: troppo trafficato e banale per un viaggio fuori rotta. Al bivio i Tir finiscono, ed è subito grano, ciliegi, arnie nella prateria. Un'ouverture morbida, quasi austriaca, che inganna. Subito la strada s'avvita in tornanti tra villaggi a picco, abeti enormi, muraglie di roccia rossastra. Poi pascoli, vacche, torrenti, campanacci. E ringhiosi cani pastori che mi impediscono di uscir dall'auto.
L'asfalto si crepa, diventa sterrato. Lontano, oltre il monte "perché i Pisan veder Lucca non ponno", brilla un pezzo di Tirreno. Oltre un rifugio, qualcuno ha scritto su un cartello: "Cosa aspettate a chiuderla questa strada? Aperta serve solo ai bracconieri, che votano Berlusconi". Per terra rami spezzati di faggio, persino un tronco. Devo scendere a spostarli per proseguire. La carreggiata è un tappeto di foglie, pigne, sassi, rigagnoli e fango. Il trabiccolo ondeggia sotto pareti di roccia instabile. Vai Nerina, vai, ormai sei in ballo.

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La cima. Ora, penso, sono nell'efficientissima Emilia, e la discesa sarà un nastro d'asfalto ripulito. Invece no: subito dietro l'angolo, eccoti un nevaio sulla strada. Compatto e duro, insuperabile. Spengo il motore, mi vien da ridere. Sento dei passi: è un escursionista. Scende da un sentiero che porta all'ancor più sconosciuto "Passo di Annibale", la pista dove il nostro avrebbe iniziato la calata su Roma dopo lo sfondamento sulla Trebbia.
Gli chiedo della strada.
"Te tu non ci vai. Quella in Toscana non l'è nulla a paragone di questa in Emilia. L'ho fatta in Enduro, era un casino anche con l'Enduro"
Di dove sei?
"Prato. E tu?".
Trieste.
"Ah, lì non vi mancano le montagne, che ci vieni a fare in Appennino?"
Di Alpi ne ho fin sopra la testa.
"Allora te tu devi provare col passo della Croce Arcana".
Che roba è?
"Ti porta sparato in Emilia senza fare l'Abetone. Passa tra il Corno alle Scale e il Libro Aperto. Lì tu ci hai uno sterrato che l'è meglio di codesto. Superi la Doganaccia e sei a Fanano".
L'hai fatta in Enduro?
"In Enduro e a piedi".
Ma io non ho l'Enduro. Ho una Topolino.
"Te tu sei matto, ma ce la fai, ce la fai di sicuro, quella lì sale per i muri. E ci ha il culo alto".
Grazie. Come ti chiami?
"Paolo".
Anch'io. Buon proseguimento.
Il tosco riparte, mi lascia in un silenzio da marmotte. Solo, con quei nomi irresistibili. Libro Aperto, Doganaccia, Croce Arcana. Confronto all'Abetone non c'è storia: anche stavolta la scelta è obbligata. Ridiscendo al piano, come le vacche della duchessa di Lucca, e sulla discesa trovo solo pastori, cani e forestali, tutti muti e diffidenti come lontre. Maledetti, non mi hanno detto niente mentre salivo. Che si tengano la loro strada chiusa.

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Locanda "da Michele" a Tereglio, sul discesone, infrattata come nella foresta di Sherwood. Un posto all'antica: pasta al ragù fatta in casa, baccalà in umido con pomodoro e rosmarino, gran sorrisi della cameriera. Accanto, tre avventori impegnati in una discussione sulle tasse e il fallimento garantito del governo Prodi. Tira aria di destra. Faccio un po' i conti col fatto che salendo ho visto, su un tornante, l'ex casa del fascio di Tereglio, bombardata nel '44 dai partigiani della sovrastante Montefegatesi. Chissà, penso, magari tra i due paesi non corre tuttora buon sangue.
"Ma com'è Montefegatesi?" provoco. "Ci sono passato, c'era gente strana". E quelli del tavolo vicino: "Ah, Montefegatesi l'è un'altra cosa". Insisto: "Sono diversi da voi, sorridono di meno". Loro: "Montefegatesi l'è Montefegatesi". E cioè? "Loro ci hanno fregato sempre perché stanno di sopra. Trecento metri più in alto". E che possono fare da lì, bombardarvi? "Certo che possono. L'hanno già fatto. Noi si aveva la terra più ricca e loro ci hanno tirato con gli obici". Com'è strana la memoria degli italiani. Non una parola su guerra e Resistenza. Tutto si riduce a un regolamento di conti. Alla fiaba di Esopo sul lupo e l'agnello.

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Ben mi sta. Anche la Croce Arcana, dove arrivo due ore dopo, è sbarrata dalla neve. Ho già fatto un centinaio di chilometri alla cieca e non ho ancora valicato lo spartiacque. Ma perdersi ha i suoi vantaggi. Sotto il passo, trovo Jack, un forestale in pensione che mi passa un'altra bella storia. Proprio qui gli alleati sfondarono la Linea Gotica nell'inverno del '45. "Era una banda di matti. Gli americani avevano la decima divisione Mountain, la stessa di oggi in Afghanistan, e per stemma un cobra con la pipa, disegnato apposta da Walt Disney. Con loro c'erano brasiliani, che impazzirono di gioia vedendo cadere dal cielo per la prima neve in vita loro. Tra gli sciatori c'erano anche Indios dell'Amazzonia. E i partigiani avevano una Topolino come la sua".
In un diluvio improvviso ridiscendo alla mia personale Canossa, l'Abetone. M'accorgo che gocciola dalla capote. La temperatura è scesa a otto gradi, il passo è presidiato da motociclisti tedeschi, l'acqua ruscella sulla piramide con su inciso "Petrus Leopoldus Archidux Austriae Magnus Etruriae Dux, MDCCLXXVIII". Intorno, boschi di faggeti patriarcali. Sulla discesa, scritte antagoniste: "Silvio porco" e "Basta mortadella". Ponti medievali, capannoni, brutte case moderne, Tir pieni di tronchi. Un Appennino meno autentico di quello toscano. Un barista di Pievepélago, cui chiedo dettagli sulla Linea Gotica, risponde alzando le spalle: "Conosco solo la linea del tortello".

(5 agosto 2006)


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