Quell'Emilia americana

Il ritorno di Felix Pedro, alias Felice Pedroni, il più grande cercatore d'oro della storia, si consuma assolutamente per caso, alle cinque della sera, nella bottega del barbiere di Fanano, nell'alto Modenese, un paesone dal tipico aspetto emiliano di premiata colonia estiva. Fanano, cosa può dirmi un posto di nome Fanano, penso parcheggiando il trabiccolo in piazza. Niente. Sono cotto dal viaggio, devo trovar da dormire, lo specchietto retrovisore mi rimanda l'immagine imbarbarita di un camionista o di un mulattiere. Occhi rossi, faccia ispida, da insaponare immediatamente.



In piazza c'è il monumento al fante della Grande Guerra, il Banco - pensate - dei Santi Giminiano e Prospero, profumo di caffè buono, lampioni, aria fresca che scende dal monte dove, dicono, passa l'estate Pavarotti. Più Italia di così si muore. Ma intanto la prima donna cui chiedo del barbiere, mi risponde con accento polacco. M'accorgo che intorno è pieno di straniere. Russe, serbe, rumene. Di italiani, invece, neanche l'ombra. Nulla è ciò che sembra, in Appennino.

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"Ne avete di forestieri" dico all'uomo col rasoio. Lui: "Saranno il sessanta per cento, per strada fatichi a sentir parlare italiano. Che vuole, qui c'è lavoro: la maialaia, il macello sul fiume, l'acciaieria, gli alberghi. E un mare di vecchi". Chiedo: ma una volta com'era? "Scappavano tutti, qui era terra di gozzo e pellagra. Mezzo paese è emigrato in America. Vada a vedere la casa di Felice Pedroni: un secolo fa, in Alaska, ha scoperto la più grande miniera d'oro del mondo".
Chi? "Pedroni Felice, una leggenda. Dicono sia morto avvelenato dalla moglie. C'è anche la tomba". E' fatta. Mi scopro con un baffo più corto dell'altro, ma che importa, ho una bella storia. E' sempre così. Quando non sai niente di un posto, fatti una chiacchierata col barbiere. Se ha voglia di raccontare, rimedi qualcosa di sicuro; l'Italia minore è una miniera.

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"Pedroni ha fondato la città di Fairbanks e la sua vena d'oro continua a produrre un miliardo di dollari l'anno" conferma l'assessore ai Lavori pubblici di Fanano, Alessandro Fogliani, che becco la mattina dopo in un corridoio del municipio. E' un tipo entusiasta: m'imbarca subito sul furgone per scarrozzarmi tra le colline con curve da Gran Premio. "Pensa, in America era un eroe, il suo nome stava nei libri di storia, e noi, fino a 30 anni fa, non ne sapevamo niente. La storia è saltata fuori per caso".
Ecco la casa natale, a Trignano, frazione sperduta nel punto di sfondamento della Linea Gotica. Sopra l'ingresso, la lapide col nome. Poco lontano, un palco in allestimento per i reduci del 1945. Ci saranno alleati e tedeschi insieme, con la banda del paese. Corsa all'oro e guerra mondiale: la grande storia passa spesso per posti dimenticati.

Andiamo al cimitero, dove la tomba di Felix - Italia ingrata - non è un monumento ma un loculo qualsiasi. Come molti di nome Felice, il mitico scopritore di Pedro Creek - torrente più aurifero del Pianeta - ebbe vita triste. Lo sa bene Giorgio Comaschi da Bologna, che ha appena finito di scriverci su un libro e una sceneggiatura. Pedroni emigrò a 30 anni, e l'idea dell'oro in lui nacque per caso, da una chiacchierata tra emigranti alla fame. Lui poteva andare in California, ma scelse il freddo. Era imbattibile sulla neve, gli altri cercatori lo capirono presto e cominciarono a seguirlo. Ma lui non lasciava fuochi accesi, cancellava le tracce. Un cane da tartufi.

"Nel 1906 tornò, ricco, al paese. Corteggiò una maestrina che lo rifiutò. Allora tornò in Alaska per sposare una ballerina da saloon. Un'irlandese, tosta come lui, una che succhiava soldi ai minatori esattamente come le veline di oggi fanno con i calciatori. Morì presto, e di lui si persero le tracce".
Ma nel 1970 un notaio di Pavullo scoprì la storia, dopo mille ricerche rinvenne la tomba a San Francisco, e nel '72 organizzò il trasporto del corpo in Italia. "Ma quando il feretro arrivò a Fanano - racconta Comaschi - si scatenarono i "si dice". Per esempio che la moglie l'aveva fatto fuori, con uno spillone nel collo. Oggi abbiamo riesumato il corpo, ma non abbiamo trovato tracce di omicidio".

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La Topo rosicchia un paesaggio grasso, ordinato, quasi bavarese. Impossibile immaginare la fame di un secolo fa, medito guidando verso Porretta Terme, la terra di Francesco Guccini. Penso proprio a lui, Guccini. M'è tornata in mente "Amerigo", la canzone dell'emigrante d'Appennino. Contiene molte chiavi per capire la storia di Pedroni l'alaskano. Le "parole dure al padre", la "tradizione di fame e fughe". Amerigo, quello col "cinto d'ernia che sembrava una fondina per la pistola", e che "tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita".

Guccini non abita in una villa con piscina, ma in una casa antica dai muri spessi, schiacciata fra la Statale 64, il fiume Limentra e il ponte della Venturina alla confluenza col Reno. E' la casa del padre mugnaio, che lo lega a questa terra grama di castagne e polenta. Lo trovo nella vecchia cucina piena di pentole e libri, che smaltisce un'abbuffata, consumata il giorno prima con amici romagnoli. Racconta e fuma. "Porca miseria - brontola - ad Amerigo non ho chiesto abbastanza cose: quanto guadagnava, quali orari di lavoro, perché era finito a Pittsburgh. E' morto nel '66, mentre ero militare a Trieste, e non mi diedero nemmeno la licenza per il funerale".

"Si emigrava fino agli anni Cinquanta, fino ai tempi di quella Topolino, per togliere via una bocca alla famiglia. Conosci Laetitia Casta, l'attrice francese? Anche la sua famiglia partì dalla valle del Reno. Qui l'emigrazione ha segnato persino il dialetto. Capo si dice "boss", e litigare si dice "faitare", dall'inglese "fight". In compenso chi è rimasto in America non sa più l'italiano. Ci scrive lettere tradotte al computer, col risultato che si capiscono meno dell'inglese".
Le donne stavano sui campi fino al nono mese, mollavano un attimo solo per partorire. Gli uomini scendevano dal monte "con sacchi di castagne da un quintale e mezzo sulla schiena, larghi così, e fascine grandi due volte un uomo". Pelare e macinar castagne era bestiale. Dovevi seccarle a fuoco lento per quaranta giorni. "Ci si dava il turno, per star svegli si giocava a "cencio moio". Ci si guardava fissi, e a chi rideva per primo si buttava in faccia uno straccio bagnato. Poi bisognava pressare la farina nei cassoni perché non entrassero le farfalle".

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Franco sbarca dal treno alla stazione di Porretta con l'aria felice di chi ha schivato un'assemblea condominiale. Da ragazzi, a Trieste, abbiamo sistematicamente smantellato le nostre Cinquecento in paurosi testacoda sul ghiaino del lungomare. Ora faremo insieme un pezzo di strada verso l'Italia Centrale. Franco è identico a se stesso dal tempo del liceo, ha su di me uno straordinario effetto ansiolitico. Inoltre guida benissimo, dunque ho finalmente qualcuno cui mollare il volante per prendere appunti in pace.

Sfidiamo a tortelli e vino la malinconia termale del luogo, nella fresca trattoria di Pellegrino Castelli, inesauribile baricentro anedottico dell'estate porrettana. Pellegrino, detto "Pelle", corporatura volitiva e mascella pure, è un destro di quelli d'una volta, ma frequentato e amato dalla sinistra padana, che viene a rimpinzarsi da lui. Dario Fo, Cofferati, Guccini. Gridano, ridono, si sfottono, un gioco delle parti senza il quale Porretta non sarebbe Porretta.
All'ora dei grilli, il bardo Francesco chiude in ottava rima i suoi racconti sulla miseria. "Racconterò la vita strapazzata / di chi alla macchia va per lavorare. Vita tremenda e vita disperata / chi non la prova non la può insegnare / credo all'inferno un'anima dannata / non possa così tanto tribolare / e non lo provi spasimo e dolore / come fa il carbonaio e il tagliatore". Il vino è finito, fuori non c'è che il rumore del fiume.

(6 agosto 2006)


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