Nella gola del gigante


Il Sasso chiamato Simone naviga sotto le stelle, sul confine tra Marche e Toscana, solitario tra i grilli e un mare di querce nel vento. Sembra una portaerei, con gigantesche murate e una lunga pista sulla sommità. I toscani fortificarono questo bastione naturale per tenere a bada i signori del Montefeltro e le loro rocche di San Marino, Sant'Agata e San Leo. Ma presto lo abbandonarono, per assenza di sorgenti e strade, e oggi la foresta s'è mangiata tutto, le pietre sono appena visibili nell'erba alta. Sul paese-fantasma è rimasta solo una gran croce in ferro, perfetto acchiappafulmini nei giorni di temporale.



Al mattino dopo l'auto sale nella boscaglia sopra Pennabilli in un forte odore di aglio selvatico. Sui tornanti, paracarri tozzi, quasi megalitici. In fondo, il Sasso, in un'aria liquida che lo avvicina come una lente d'ingrandimento. A un curvone proseguiamo a piedi su una traccia fangosa, devastata dai fuoristrada e dal passaggio di cavalli, con un surreale cartello "Velocità massima 30 orari". Incontriamo solo due tedeschi, in quasi un'ora di strada tra piante rampicanti e sfasciumi, finché l'ombra del Sasso ci si allunga sopra, con grigie pareti coperte di licheni.
Sasso Simone è la boa di una regata. Persino i confini gli fanno ressa intorno. Emilia-Romagna, Umbria, Toscana e Marche qui disegnano tali labirinti che, circumnavigando la montagna in senso antiorario, in 40 chilometri esci dalle Marche per quattro volte ed entri in Toscana per altrettante. Sulla mappa troviamo persino un'enclave - un pazzesco Nagorno Karabak toscano - attorno a una frazione di nome Cà Raffaello.

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Ma il cielo si oscura, governo ladro. Dopo una gola franosa fra dirupi, facciamo in tempo a vedere un fronte di nubi nero-inchiostro arrivare a tutta velocità da Occidente. Il vento spazza le praterie verde elettrico, scuote la più grande foresta di cerri d'Italia, e il Sasso Simone pare uno scoglio in un vortice di tempeste. Tuona, la temperatura è scesa di quindici gradi, piove sottile, poi a dirotto suì ruderi e i dirupi, e il canalone diventa uno scivolo di fango.

Riparo con Franco sotto uno strapiombo, ma la pioggia diventa monsone, il bosco è percorso da nubi sfilacciate come il fumo di un incendio. La discesa dura mezz'ora in una mota argillosa come plastilina, e al capolinea - quando pensiamo di essere al riparo - scopriamo che anche la Topolino gronda acqua. La capote non tiene. Mettiamo in moto alla cieca, col parabrezza appannato e il tergicristallo anni Cinquanta che fa quello che può, un giro cigolante ogni quattro, cinque secondi. Il passeggero è sotto una cascatella, gli tocca asciugare il pavimento con la spugna di dotazione.

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La spugna, ecco a cosa serviva quella dannata spugna sotto il sedile di destra. Chiamo il proprietario dell'auto, devo gridare forte per superare il rumore dell'acqua. Gli chiedo come devo regolarmi in casi simili. "Semplice - fa lui - ti fermi". Ah. Ora lo so, gli amatori delle auto d'epoca si dividono in due categorie: i restauratori e i conservatori. I primi impermeabilizzano, verniciano, chiudono ogni fessura, rendono tutto più felpato e confortevole. Gli altri lasciano tutto com'è. Bene, ora abbiano capito che il proprietario della Topo appartiene alla seconda confraternita. "Se avessi impermeabilizzato le fessure - gracchia al telefono il Righi Roberto mentre ormai mi piove nelle mutande - l'auto avrebbe perduto la cosa fondamentale: l'odore. Non sarebbe più la Topolino".
Viaggiamo alla cieca in boschi totalmente deserti, poi, al passo della Cantoniera, ecco una luce accesa e un camino che fuma. Oltre la cascata leggo a malapena "locanda Capinera". Il posto è perfetto, ma il diluvio è tale che il parcheggio riesce solo aprendo le portiere. Dentro è strapieno di ciclisti: un plotone di belgi alle prese con le tagliatelle al ragù e posseduti da un'insana allegria. Ci accolgono con pacche tremende sulle spalle, mentre dai tavoli si alzano cori per l'arrivo dello spezzatino, e un tipo alla ispettore Clouzot con la maglietta del "Crédit Mutuel" solleva di peso il cuoco appena uscito dalla cucina. Fa freddo, il vento squassa gli alberi, raffiche di pioggia mitragliano le vetrate. E noi si va di grappa con i belgi festanti, come con un'orda di lanzichenecchi papalini.

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Non resta che tornare alla base. Nell'auto più niente di asciutto. Nemmeno i documenti. Nemmeno le carte geografiche. In albergo a Pennabilli cerchiamo di recuperare con l'asciugacapelli almeno il libretto di circolazione, e in breve la stanza si riempie di fogli appesi con le mollette. Franco scende sotto la tettoia del parcheggio, apre la capote e le porte del trabiccolo per ventilare la tappezzeria fradicia. Ormai Nerina ha preso il sopravvento. Ci domina. Noi pensiamo prima ad asciugare lei che le nostre mutande.

Mi sfiora persino l'idea demente di sostituire l'"io" narrante con il "noi", nel senso di Nerina e io. E' il segno che la "Topo" ha invaso anche il racconto. Eppure il proprietario mi aveva avvertito: "Attento, è come una donna. Se ce l'hai la maledici, se la perdi ti manca, se ti frega ci perdi l'anima". Franco, esausto, russa come un facocero, e il ronfo, abbinandosi al richiamo di una civetta fuori dalla terrazza, diventa nel dormiveglia il raglio di un animale mitologico spaventoso.

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Dopo cena il cielo si apre e, tra i lumini dei villaggi e gli ulivi fruscianti, la turrita Pennabilli dal doppio cocuzzolo - Penna e Billi - si svela un'acropoli perfetta, un formidabile luogo dell'anima. Scalpiccìo, rondini, gente che parla a bassa voce; la Toscana ribalda e il divertimentificio romagnolo sono già un altro mondo. Se esiste un luogo dell'identità appenninica, ce l'abbiamo davanti.

Chissà dov'è la casa del grande vecchio, il poeta Tonino Guerra. "Eccola lassù, ma tanto lui non c'è" risponde una donna col fazzoletto nero in testa. "E' partito per la Russia con la moglie". Qui tutti sanno tutto dei movimenti del più illustre inquilino del Montefeltro. "Tonino ha una stella rossa in testa - ride un tipo al bar - gliel'ha messa anni fa il chirurgo sovietico che l'ha operato al cervello".
"Quello lì ha sette vite, come un cosacco", aggiunge, e tenta di ricordare una sua poesia in romagnolo, scritta dopo il lager in Germania. "Tante volte sono stato felice in vita mia... ma specialmente lo sono stato... quando la prima volta ho visto una farfalla senza... aver voglia di mangiarla".

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La mattina il cielo è una meraviglia, il vento spazza i pensieri. Anche il macinino è pimpante, persino ipercinetico, parte come un segugio a caccia di marmotte, scava verso la pancia del Paese. Il paesaggio si fa più umbro, morbido. Tutto è ricurvo: dalle colline ai solchi della arature, dai meandri dei fiumi al limitare dei boschi. Traversiamo gioielli come Belforte all'Isauro, Sant'Angelo in Vado, Cagli, Sorbètolo, Pian di Meleto. Valli sconosciute: il Candigliano, il Metauro, il Bosso. L'Italia "è" questi luoghi fuori rotta. Per trovarli basta fare slalom tra buche e qualche merda di vacca, rinunciando alla pestilenza del rettilineo.

L'acqua del Bosso è verde, un po' Neretva, preludio di terre da lupi: quelle che portano al Catria, bastione di millesettecento metri sopra il monastero camaldolese di Fonte Avellana. M'accorgo che per la prima volta, dopo la Linea Gotica, la gente ci saluta. Occhiate stupite, di meraviglia, invidia, incredulità; come se la Topolino disincagliasse qualcosa dal sommerso della loro anima. Un automobilista lampeggia, un altro suona il clacson, un altro ancora si sbraccia dal finestrino. Fanno una cosa che in autostrada sarebbe impossibile: cercano gli occhi di chi guida. L'incrocio di sguardi dura un attimo, ma basta e avanza perché sia ordinatamente archiviato dalla memoria.

(8 agosto 2006)


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