Le signore degli agnelli


Quarto giorno, dove la Topolino incontra donne e greggi mentre nella notte percorre l'invisibile autostrada dei lupi
"Niente da fare, queste sono terre di eroici disertori"
"A Favale l'ultimo processo del Regno per delitto di fede"
Non più Liguria, non ancora Toscana. Ecco dunque la Lunigiana delle valli perdute e delle montagne silenziose



Il macinino ansima in prima, rivela di sé le vibrazioni più intime, soffi, scricchiolii, raschiamenti, tintinnar di stoviglie. Sale così piano, e su strade così deserte, che può concedersi di andare a zig zag per schivare le rughe sull'asfalto. Profumo di Versilia che sale dal Tirreno; ramarri immobili dietro i paracarri, all'erta come velociraptor. Intorno, boscaglia fitta, senza segni di presenza umana, con nell'aria una sottile angoscia. La sensazione che se finisci in una scarpata, qui ti ritrovano dopo seimila anni, come la mummia del Similaun. Afghanistan? No, l'avventura comincia in Lunigiana, sulle valli perdute sopra Pontremoli, dove abitano le Signore degli Agnelli.
"Sul crinale che porta in Liguria troverai greggi pascolate da donne", m'avvertono già in paese, come per indicarmi la favolosa Arcadia dei greci. Più in alto, a Rossano, nell'affollata trattoria "Da Adolfo", il cameriere serve un piatto di ravioloni in dose da camionista e conferma. "Cerca di Patrizia o Cinzia, oppure di Valentina, quella che tosa ancora con le forbici, in località Formentara", e indica verso Occidente un complesso arcipelago di pascoli in quota. Le valli di Zeri.
"Zeri veste del proprio pelo e mangia del proprio pane", dice. Il pelo sono le pecore d'Appennino, il pane la farina di castagne. Un mondo blindato, che però ha nascosto e nutrito centinaia di militari alleati in fuga dalla prigionia dopo l'8 settembre, consentendo loro di costruire - con la Resistenza - una micidiale base avanzata alle spalle della Linea Gotica. Britannici, americani, polacchi, jugoslavi, olandesi, russi, belgi e francesi. E con loro una sessantina di paracadutisti inglesi, spediti a preparare l'offensiva finale. I locali hanno subito per questo feroci rappresaglie, ma non hanno mai smesso di dare agli stranieri il pane e il pelo delle loro montagne. Fino alla Liberazione.
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Patrizia s'è ripulita, profumata, agghindata a festa. Ha appena finito la battaglia campale della tosatura, e si regala il lusso di una pausa. Nella sua fresca casa in pietra, narra la sfida raccolta dal suo gruppo, governato da una solida maggioranza di femmine. "Stavamo perdendo le tradizioni dei padri, non sapevamo che le nostre bestie erano uniche, avevano la carne più dolce e più chiara di quella dell'agnello sardo. Non sapevamo che il loro latte conteneva più grasso, e che la loro lana poteva infeltrirsi meglio di qualunque altra. Poi è venuta l'università di Pisa, ci ha detto che l'agnello zerasco era frutto di una selezione unica, abbiamo capito di avere in mano un tesoro e ci siamo consorziate".
E' la Resistenza che continua, 60 anni dopo, e contro nemici più infidi: l'indifferenza della politica, le invidie della gente, la stupida vergogna italiota del passato contadino, la grande distribuzione commerciale che stermina le diversità. Pat parla come un libro stampato, sarebbe a suo agio anche nella reggia di Schoenbrunn a Vienna o a un ricevimento di gala a New York. Fuori, il vento accarezza le praterie della sua Roncisvalle.
Si sente la voce di Cinzia che arriva con le altre. E' lei la più autorevole, è da lei che tutto è cominciato. E' stanca, si siede su un muretto, forma inconsapevolmente col resto del gruppo un quadro familiare di Piero della Francesca. Sorride: "Con tanta fatica, stiamo facendo le profetesse in patria. Ci siamo attaccate con forza al passato che meglio poteva aprirci un futuro giusto, e abbiamo avuto ragione. Oggi Slow Food e i migliori ristoranti sanno che il nostro prodotto è imbattibile e ci vengono a cercare".
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Frazione Valditermine, stelle cadenti, silenzio. Sopra di noi l'orlo nero delle montagne dove Liguria, Toscana ed Emilia si toccano. La Topo dormicchia su una radura. Le bestie sono all'ovile, ansimano in piedi strette le une alle altre, appoggiandosi tra loro. Nessun belato. Ma se una soltanto si muove, oscillano tutte insieme come un unico animale, e allora lo scampanellìo, il respiro e persino il calore si propagano come un'onda. Valentina abita quassù, è la più tosta di tutte. Sa tosare le pecore da sola: le rincorre una per una, le chiama per nome, le immobilizza con le gambe e poi parte con le forbici.
Per tenere d'occhio il lupo, che transita sul passo dei due Santi, sopra casa sua, Valentina è capace di dormire col gregge. Quassù del lupo hanno rispetto reverenziale. "E' difficilissimo vederlo, ma se lo vedi l'impressione è tale che la vita ti cambia. E' come aver visto uno spettro". Il lupo è una presenza sovrannaturale. Non ha peso, viaggia come un overcraft, galleggia nell'aria. E s'è salvato dallo sterminio proprio così: smaterializzandosi, imparando l'assoluto silenzio, riducendo la consistenza dei branchi, muovendosi di notte o nell'ora delle ombre lunghe, alba e tramonto. "E' capace di seguirti per giorni e colpire il gregge al tuo primo momento di distrazione", sorride Patrizia. "Ma almeno uccide con professionalità. Non fa danni collaterali e non lascia traccia. I cani liberi e i cinghiali, invece, passano come ruspe e devastano tutto".
I cani maremmani sono nervosi, fiutano presenze. Sopra la casa di Valentina c'è la pista dei lupi. Un'autostrada invisibile. I branchi seguono sempre la corrente. Viaggiano dall'Abruzzo verso Nordovest, sono arrivati da qualche anno in Francia, nelle Alpi Marittime, e alcune avanguardie sono già in Svizzera. Fra qualche anno, dicono, avremo un evento epocale: l'incontro tra i lupi italiani e quelli dei Balcani, che non si toccano da secoli. Allora, per legge di natura, le due specie daranno vita, accoppiandosi, a ibridi di vitalità superiore. Lupi imbattibili. Un cane abbaia furiosamente, altri rispondono, il monte Gòttero ne rimanda l'eco. Buio assoluto. Siamo a trenta chilometri da La Spezia ma sembrano i Carpazi.
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"Non siamo liguri e nemmeno toscane", dice Cinzia accanto al fuoco e m'accorgo che ha ragione: ha l'occhio romanesco lampeggiante, corpo di morbidezza ciociara. Ma allora, chiedo, cosa siete? "Sannite", risponde come fosse la cosa più ovvia del mondo. "L'esercito di Roma non riusciva a domare solo due popoli italici: i Liguri apuani di queste terre e i Sanniti, tra Frosinone e il Molise. Tostissimi, irriducibili entrambi. Allora hanno pensato di deportarli, trasferendo gli uni nella terra degli altri". Chissà, mi chiedo, che la resistenza di questa gente non nasca allora. Da una ferita di duemila anni fa.
Riecco le montagne-contro, gli Appennini dei disertori e degli sbandati. Mi dicono che a Favale di Màlvano, poco a Ovest, sopra Rapallo, dei cantastorie si convertirono alla confessione valdese per insofferenza verso i parroci e nel 1862 subirono per questo l'ultimo, crudele processo per "delitto di fede" del regno d'Italia. Con lo stesso spirito ribelle, Favale ospitò migliaia di disertori della Grande Guerra, su un monte dal nome ribelle di Caucaso. Vi si nascosero per anni, protetti dal silenzio della gente. Sulle Apuane uno di loro è rimasto fino alla morte, negli anni Sessanta, sempre in latitanza. Orlando si chiamava, e il vignaiolo Nanni Barbèro di Sarzana se lo ricorda bene. Rubava galline e la gente lasciava fare. Entrava nei negozi a far questua, diceva con dignità "Sono venuto a riscuotere l'affitto", e tutti stavano al gioco.
Appennini, montagne del silenzio. Sono quattro giorni, dalla partenza a Savona, che non vedo un supermercato, un autogrill, un vucumprà o un manager gesticolante con telefonino. Sento ululare, lontano, verso il crinale della Val di Taro. Una parabola sonora appena avvertibile, che muore nel buio come una stella cadente. Guardo la carta appenninica, la dorsale che va a Sudest fra i due mari, e m'accorgo che la mia capretta meccanica sta facendo meticolosamente, al contrario, la stessa strada dei lupi.

(3 agosto 2006)


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