Nella campagna dell'uomo estinto


Terzo giorno, dove la Topolino incontra elefanti, orsi e balene di montagna Canticchiando mazurche triestine in pseudo-tedesco
"In Africa, in pieno deserto, c'è sempre qualcuno Qui no"
"La gente scappa, va via e non sa che cosa si perde"
In terra di Val D'Arda riposa un antico leviatano tra fossili di pesci quaternari Ecco perché le vigne di qui hanno il profumo del mare



Una trattoria con pergola e vino gelato dei colli. Intorno zanzare, ciclisti in fuga, rombo di camion verso la piana operosa. Accanto, quattro avventori che battono carte a "conchino" e sembra parlino uzbeco. Sullo sfondo, Castell'Arquato, turrito guardiano della Val d'Arda. L'auto non va bene, tossisce, fatica a ripartire, ha le batterie scariche. Uno degli indigeni, in canottiera regolamentare, si tuffa felice in quel motore arcano, armeggia, spiega che la dinamo non ricarica e io rischio di restare "col culo per terra". Diavolo, chi si ricordava della dinamo. E' un marchingegno estinto, oggi c'è l'alternatore. Un magnifico nome di una volta. Contiene un mondo perduto, muscolare, privo di carenature e microchip. Evoca i corridori di Olimpia, il fascio littorio e le squadre di calcio ex comuniste di Kiev e Zagabria, la meccanica del ferro. La corazzata Yamamoto, Marinetti, le ardite campate del viadotti, Nowa Huta e il sol dell'avvenir.
Sul pianale posteriore ho la valigia con i ricambi. Albero motore, differenziale, frizioni, pulegge, chiavi inglesi, guarnizioni. E anche la dinamo, ovviamente d'epoca. Arriva il meccanico, mi racconta la storia della sua vita, dice che in mezza giornata è fatta. Penso: mezza giornata, se continuo così arrivo in Calabria fra un anno. Intanto, alla spicciolata, affluisce mezzo paese a godersi la scena. Sono già le undici, mi prende lo sconforto, non sono ancora entrato nel fatalismo del nomade. Non ho ancora capito che le soste forzate, ignote ai contemporanei, sono la benedizione del viaggiatore.
* * *
Difatti è lì, nello scenario franoso dei colli piacentini, che incontro la Signora delle Balene. Mentre l'auto è sotto i ferri, mi si para davanti in pantaloni alla turca gonfi di vento, sotto un filare di pioppi, capelli neri corti e un'allegra follia padana nel gesto e nella voce. Claudia Losi, artista antropologa, mi porta a vedere le ossa della balena appenninica, sospesa proprio lì con i suoi costoloni vecchi di milioni di anni sui calanchi di Castell'Arquato, tra fossili di pesci quaternari. "Lo sai? Le nostre vigne traggono sapore da un immenso cimitero marino".
Dopo l'elefante, ecco un altro gigante uscito dal tempo per arenarsi nel nostro mondo. Sto entrando in un bestiario allegorico? L'idea mi insegue da Bobbio, in Val Trebbia. Accanto alla cripta di San Colombano, c'era un favoloso - e tuttora inspiegato - mosaico medievale con chimere a due teste, draghi, centauri e ovviamente elefanti. E poi, più a valle, il ritorno dei pachidermi annibalici nello stemma del comune di Gossolengo, sulle praterie dell'ecatombe.
"La prima balena vera l'ho vista da bambina, era esposta in un container da circo. Puzzava di formaldeide, era viscida, nera, illuminata da orrende luci arancione. Il suo occhio sbarrato mi perseguita da allora. Poi qui a Castell'Arquato, davanti a queste ossa, ho scoperto perché il leviatano dorme nell'immaginario delle mie terre. E allora ho deciso di costruirmi una balena di stoffa, in grandezza naturale, e di portarla in giro nel mondo". Oggi il cetaceo è chiuso in un capannone di Fiorenzuola, ti guarda nel semibuio dopo aver valicato oceani, stupito persino gli indios delle Ande a 4000 metri di quota. "I grandi animali affascinano perché ognuno può riempirli del suo significato. Sono archetipi di qualcosa di perduto. Figurarsi qui, in una terra di stratificazioni, spartiti musicali, animali fossili. Qui vicino hanno trovato un fegato etrusco in bronzo, con le istruzioni per gli aruspici. L'Appennino è pieno di animali divini".
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Il topo meccanico, di nuovo in piena forma, risale la Val d'Arda alla ricerca dell'Arca perduta. L'Appennino è una fattoria degli animali, lo capisci dai nomi di luogo. Capracotta, passo del Cifalco, colle dell'Agnello, Cantalupo, Orsomarso, Caniparola, Gole della Gatta, Vaccarizza, perfino Strangolagalli. Ho davanti una penisola di montagne che raglia, grugnisce, abbaia, ulula, bela, fa chicchirichì. L'immaginario si popola di cori animali, genera araldiche sovrapposizioni di mammiferi e uccelli come il mostro dei musicanti di Brema.
Marco Rigolli, sindaco di Morfasso, paesone in mezzo a montagne di carbonai, partigiani e cacciatori, racconta che sul monte Soglio il capo delle guardie forestali quest'anno ha visto una pantera nera come l'inferno, fuggita da una villa di milionari imbecilli. E poi cinghiali, a migliaia, ovunque. E lupi, di passaggio verso la Francia. Manca un solo animale: l'uomo. Ieri l'emigrazione, oggi la fuga in pianura. I sentieri, che formicolavano di tagliaboschi, pellegrini, carovane di mercanti, mulattieri, emigranti, pastori, contadini e soldati, oggi sono quasi deserti. "Se vuole, la porto da uno che ha conosciuto i domatori di orsi", dice Rigolli. Ci mancava l'orso, dopo la balena e l'elefante. La giornata dei giganti appenninici è completa. Andiamo da Vittorio Biffi, classe 1919, una vita di lavoro all'estero, un fenomeno di simpatia. Lui l'ha visto il Corradi Luigi, morto nel '33, cui l'orso - che lui guidava a piedi fino in Polonia - aveva amputato un dito. E il Casali Domenico, domatore che parlava russo. O altri, che compravano i bestioni in Slovenia per andare fino in Russia a farli ballare. Parla in dialetto stretto, il sindaco traduce. "Poveracci, non facevano soldi, puzzavano, la gente gli rovesciava pitali di piscio dalle finestre, dormivano vicino alla bestia ed erano pieni di pidocchi... solo i più bravi divennero gelatai... gli altri erano disperati...". Ride, gesticola, strabuzza gli occhi, ansima, riprende fiato. "Gh'era uo che el naua a fè balà la sumia, ce n'era anche uno che andava a far ballare le scimmia... Dio quanta fame c'era, quanta fatica, quanto lavoro dei nostri emigranti... Siamo partiti così giovani che non abbiamo fatto in tempo a fare i partigiani. Nel '43 eravamo già inglesi, americani, sbarcavamo in Normandia... Alcuni finirono a El Alamein a sparare contro i compaesani, per la guerra voluta da un idiota... Mi fa male ricordare, ho il cuore debole... E poi sa, mi fanno tenerezza stè rumene, stè ucraine che vengono qui, magari sono laureate e puliscono il culo a noi vecchi... Basta prendersela con i forestieri! Dicono che sono ladri... ma noi cosa eravamo? Sa quanti imbroglioni abbiamo in Italia? Chi se la prende con gli immigrati non ha memoria".
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"Zwanzig Personen / in Automobil / das ist zuviel / das ist zuviel". La strada verso Bardi è così solitaria che per vincere l'angoscia mi sgolo con una vecchia canzone triestina in pseudo-tedesco. Tempo mazurca, allegro con brio. "In eine Svolten / Auto se volten / zwanzig Personen / sind alle kaputt". Ah, magari guidassi un'auto con venti persone, qui la notte si avvicina con un buio pieno di balene che ti entra nell'anima, e la Topo, piccolina, con le sue lucette, è solo un "mouse" che esplora l'immensità. In Africa, anche in pieno deserto, c'è sempre qualcuno sulla strada. Qui no. La vita è altrove. L'uomo pare esitinto come l'elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio incomparabilmente più ancestrale e arcano delle Alpi. Queste non sono montagne-bomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell'assemblea dei cacciatori, e qualcosa di balcanico nell'aria.
La notte m'inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda "Geppetto", un cuoco che gli somiglia mi accoglie così: "Benvenuto nel posto dove il mondo finisce". Sembra un sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un'accoglienza da re. "La gente scappa da qui e non sa cosa perde", spiega scodellando una pizza al pesto. "Io vengo dall'inferno romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più". Come la balena, sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio.

(2 agosto 2006)


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