Tutti in coda dietro al santo

Sera di vento sul lago del Fortore, nero come la pece, al confine con la Puglia. A Ovest, le luci di Pietracatella; un grumo di case attorno a una chiesa-fortezza. Ho lasciato il tratturo che va da Campobasso al Gargano; all'altezza della stazione di Ripabottoni (che nome!) ho visto luccicare a Sud, nel cielo di temporale, una sequenza di villaggi su un'onda lunga di alture viola, e ho preso quella strada. La seguirò a lungo, fino al Cilento. Il Sud comincia a Ripabottoni: sembra il titolo di un libro. Come i bivii della vita, anche la boa di un viaggio può essere un luogo minimale, fuori dal mondo.



Ormai è una settimana che fa brutto. Una settimana che mi chiedo che tempo farà domani. Con un'auto normale non mi porrei la domanda. Con la Topolino sì, perché con la pioggia diventa un colabrodo. Col sole o il temporale cambia tutto: andatura, itinerario, umore, approccio col mondo. Il glorioso macinino sente il tempo con la pelle viva. Con l'acqua, questo diario diventa una storia di interni e attese, locande e racconti della sera. Col sole, a capote spalancata, un gioco di saluti, sguardi diretti e incontri sulla strada.
Confesso: un giorno ti ho maledetto, trabiccolo blu. Mi devastavi le tabelle di marcia, mi obbligavi a soste nel momento sbagliato. Era intollerabile. Dopo tre giorni di pioggia ho persino pensato di mollarti in un garage.

Ora è cambiato tutto: mi sono arreso, ho capito che quest'incertezza è un lusso, la madre di tutti gli imprevisti, il sale del viaggio. Non potrei riabituarmi a un'auto per cui il clima fosse una variabile ininfluente. Che noia sigillarsi in una scatola climatizzata, un involucro che non sente le stagioni, i profumi e le voci degli uomini.

***

Sorpresa al mattino: cielo blu-maiolica e Pietracatella, lavata dalla pioggia, che scintilla sulla collina oltre un mare di frumento. Apprendo che in paese c'è la festa di Sant'Antonio da Padova con i botti col fischio e la benedizione del pane. "Non la perda - mi dicono - vedrà i puledri in corteo, i bimbi vestiti da fraticelli e le bimbe coi fiordalisi". La Topo scatta tra il grano e gli ulivi, morde tornanti lunghi, si accoda a una trebbiatrice enorme, quasi sovietica, che arranca sul versante Nord della collina, con a bordo contadini in canottiera che salutano. Non è Italia, è Provenza d'una volta. Andalusia.

Ma proprio allora, quando ormai fiuto latitudini mediterranee, ecco arrivare nel vento - parapam parapam parapampappà - la musica più danubiana che ci sia. La Marcia Radetzky. Non ci posso credere. Un'arietta impettita di casa mia, da sagra dell'ultimo Nordest, ex territorio austro-ungarico, che si spande con pifferi e grancasse nelle terre roventi del Sud. È la banda che scende dalla chiesa-madre e, dopo aver dispiegato il suo repertorio, dà senza saperlo il benvenuto al viaggiatore sbucato dalla Mitteleuropa del caffé crème e della Sachertorte.

Finisco in stato d'euforia in un piazzale pieno di trebbiatrici, tutte in attesa di benedizione. Mi ci ficco: ci sarà pure un po' d'acqua santa per Nerina. Una folla di curiosi già attornia il trabiccolo, un bambino sugli otto anni ci sale sopra, lo scruta con occhio da intenditore, mi chiede quanto costa. "Tanto" gli dico. E lui, furbo: "Ora con la benedizione ti vale il doppio". Intanto la processione arriva, ondeggiando, con la statua del santo portata a braccia. Dietro, un mare di gente, e cavalli innervositi dai botti.

E lì, che ti vedo in testa al corteo, davanti al baldacchino del Santo Antonio, fra i turiboli dei chierichetti e l'incenso? Un giovane prete color cacao, in tonaca candida e paramenti. Un sarracino vero, niro niro, che passa con l'acqua santa tra le trebbiatrici e i mietitori che si segnano. Dopo il benvenuto austriaco, ora sulla macchinina piove la benedizione africana. Sull'Appennino le sorprese non finiscono mai.

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Bar "La Sorgente", pergolato e quattro tavolini come in Grecia. Una bella mi chiede "che volete da bere" con un rispetto inimmaginabile al Nord. E mentre sorseggio un chinotto, un signore mi si avvicina con deferenza. Come leggendomi nel pensiero, si offre d'accompagnarmi alla chiesa in cima al colle. "Lì troverà il segno dei fenici" mi dice con occhio arguto. Il tipo si chiama Antonio Fratangelo e pare la sappia lunga. Mi porta nel vento rovente verso il tempio incastrato nella roccia, sopra i tetti del paese.

"Qui tutto è fenicio" racconta salendo per stradine serpentiformi, "tutto, a partire dal nome del luogo.
Catella è Kadesh, cioé Sacro". Sulla facciata di una casa, mostra una pietra con una svastica, il segno fenicio del sole, datata 212 avanti Cristo, stessi anni di Annibale in Italia. Ora siamo sotto la "pietra sacra" che dà nome al paese. La chiesa, dedicata a San Giacomo, le sta addosso come un cristallo di quarzo. Un prisma che s'impenna, puntellato da scale ripidissime. Intorno, grano e vento. Dentro, la conferma. Un'incisione in lettere fenice, un'urna cineraria fenicia, un corridoio tipico dei templi fenici. Troppo per non pensare che su quel fantastico spuntone, prima del santuario a San Giacomo, non ci fosse dell'altro.

"Se non mi sbaglio - gli dico - la battaglia di Canne si combattè poco lontano da qui, verso Foggia". La guida ha un lampo negli occhi, mi si avvicina e scandisce, come per confidare un segreto: "No. Noo. La battaglia fu qui sotto, sul Fortore, sul fiume ora coperto dal lago. Sul Fortore hanno trovato le monete celebrative della vittoria annibalica. Portavano la scritta "Nun", cioè "Luogo sul fiume". Una è finita al Fitzwilliam's Museum di Cambridge, una al museo archeologico di Copenhagen. E una sta in casa di una contadino".

Torniamo fuori, l'orizzonte si dispiega a 360 gradi. "Qui è terra dei sanniti, nemici storici di Roma. E qui, dopo Canne, i cartaginesi decisero di sciogliersi e mettere radici. Le loro tracce? Tutte nei nomi di luogo. Pescolanciano, Pescasseroli, Pescara, non c'entrano niente con la pesca. Vengono da "Psq", in fenicio "roccia screpolata". E poi, il Gran Sasso: ha un centinaio di sorgenti dal nome punico, non una che sia greca o latina. Noi molisani siamo così, come fenici e sanniti. Mai sconfitti in battaglia, ma egualmente vinti. Portiamo nel carattere il peso di questo doppio fallimento".

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"Statale 17, com'è lunga da far tutta / romba svelto l'autotreno / questo cielo ancor sereno / sembra esplodere d'estate". Sono sulla mitica Diciassette, cantata da Guccini, e non me n'ero accorto. S'infila in un canyon tra i monti della Daunia, coronati da pale eoliche fruscianti nel maestrale. Statale 17: traffico zero, pattuglie di rondini, case cantoniere abbandonate, sole che picchia, vento da ultimo Far West. Case cantoniere: a proposito, chi tutela questo straordinario patrimonio nazionale? Nessuno ovviamente. Rabbia, rabbia contro la consorteria dei dilapidatori della cosa pubblica.

Arriva il tavoliere e la strada per Lucera, implacabilmente dritta. M'accorgo che è il primo rettilineo. Avevo giurato: pianure mai. Era nelle regole del gioco. Avevo detto alla partenza: solo curve e montagne. Così ora succede quello che doveva succedere: dopo oltre duemila chilometri di zig zag, questa strada da New Mexico, dritta come una spada in mezzo al nulla, mi dà la nausea. I Tir mi vengono addosso come per investirmi. Il rettilineo è un luogo vuoto, arrogante e violento. Trenta chilometri senza un paese, un bar, un distributore. Solo piccoli turbini di polvere e barattoli che rotolano nel vento.

Ripiego a Sud verso le montagne, in direzione di Melfi e delle terre felici di Federico Secondo imperatore. Di nuovo saliscendi, di nuovo Appennino. Troia, Bovino, Sant'Agata: com'è grande la Puglia. Il verde profondo del Molise è finito. Ora grano e ulivi hanno una lucentezza dura, metallica, lo stesso timbro freddo. Diventano gemelli come l'oro e l'argento.

(15 agosto 2006)


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