I falchi dell'imperatore Federico


Cima di un crinale, motore che ronfa in folle. Intorno, ruderi nel vento, porte sfondate, finestre riempite di cespugli di rosmarino. È Aquilonia Vecchia, cancellata da un terremoto il 23 luglio 1930. L'ultimo lembo d'Irpinia, in bilico tra Campania, Puglia e Basilicata. C'è un silenzio perfetto in mezzo alle due file di case sventrate, tra l'erba alta e i papaveri. Mi viene incontro un trattore; il contadino al volante pare un soldato sovietico tra le macerie di Grozny. Nel profondo Sud il tempo fa strani scherzi. Aquilonia pare l'antica Micene. Stessa terra bruciata, stesse capre, stessa posizione dominante. Sembrano passati più anni fra il 1930 e oggi che fra il 1930 e l'età di Omero.



Un cartello con bandierina blu stellata dice che si stanno cominciando restauri con fondi europei. Restauri di cosa? Come si fa a restaurare delle rovine lasciandole rovine? Già lo vedo: ripuliranno le case dai crolli e dagli alberi di fico cresciuti nei tetti sfondati, chiuderanno il paese al traffico e apriranno un bel "Visitor center". E dopo? Come capire lo sconquasso da bomba nucleare che tre quarti di secolo fa s'è portato via un mondo in dieci secondi? È lampante: senza le erbacce e le capre, il paese-fantasma avrà perso tutto il suo fascino tremendo.

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Carbonara si chiamava il paese, prima di sparire dalla faccia della terra. Un nome umile. Poi il Duce volle un paese nuovo, un chilometro più in alto, e lo chiamò grandiosamente "Aquilonia", turgido nome agli estrogeni. E poiché a valle le rovine restavano, lo smisurato ego del regime consentì al figlio di ribattezzare il padre. Carbonara fu Aquilonia Vecchia, con una perfetta inversione genealogica. Per un gioco del destino il cimitero si trovò a metà altezza tra i due paesi, sulla stessa strada. E così, per andare dal mondo delle ombre a quello dei vivi, è proprio per il cimitero che devi passare.

La città dei morti di Aquilonia è tutta sopra il livello del terreno, come accade spesso al Sud. Linda, curatissima, con un alto muro di cinta e popolata di signore in nero uscite da un romanzo di Silone. "Nel terremoto sono morte quasi solo donne" mi dice una di loro, "successe in pieno giorno, quando gli uomini erano tutti fuori alla trebbiatura". E tu ti perdi tra villette e condomini di trapassati, in mezzo a aiuole, fontane, androne, viali popolati di passeri e ranocchi. Puoi persino aprire cigolanti cancelli ed entrare nelle tombe, tra loculi sovrapposti come letti a castello, in cerca di Vitangelo o Donato, Filomena o Vincenzina.

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Discesa acrobatica verso la valle dell'Osento. L'asfalto ondeggia: in terra sismica le strade, oltre alle buche, hanno improvvisi cedimenti, e la tua auto smotta come un aereo nelle turbolenze, lasciandoti in bocca una nausea leggera. Dall'altra parte della valle c'è Monteverde, arroccato su un colle come la schiuma del mare sulla sommità di un frangente. E in mare ho davvero l'impressione di viaggiare, col mio trabiccolo che ogni tanto emerge sulla vetta di una gigantesca onda anomala e per un attimo, prima di sprofondare nuovamente, può guardare lontano. Nessuna pianura può darti un brivido simile.

È nell'attimo dello scollinamento che si decide un viaggio. Non c'è programma che tenga di fronte a una visione sommitale che ti schiude dei tesori. Ora vedo Monteverde, poi da lì vedrò Melfi, poi Rionero, Ripacandida, Muro Lucano. Grumi di sillabe che ti chiamano, rivelano gli dei che li hanno generati. Non come Aquilonia, nome posticcio pieno di nulla. Forse un vero viaggio andrebbe fatto alla cieca, senza mappa. Così, d'istinto. Come l'amico Roman Arens, un giornalista tedesco che qualche anno fa s'è fatto Monaco di Baviera-Roma in vespino, appunto senza carta geografica, semplicemente chiedendo ai passanti la strada per la Città Eterna. Provateci.

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Un rapace rossiccio, con festoni di penne color crema, ondeggia a bassa quota sulle praterie, ogni tanto si ferma controvento. Spengo il motore, il fascino ipnotico del volatile è straordinario. Mi siedo tra l'erba, non posso fare a meno di guardarlo. Voglio sapere che bestia è. Chiamo al telefono l'amico Paolo Zucca, veterinario triestino che va a curare i super-falchetti alla corte degli emiri in terra arabica e ha una passionaccia per Federico Secondo, il primo grande teorico della caccia con gli uccelli.

Nel vento, comincia un surreale bird-watching telefonico.
"Com'è fatto?" gracchia Paolo dall'auricolare.
È rosso-bruno e beige, piuttosto grosso, rispondo accucciato nell'erba alta.
"Come vola?"
A quattro, cinque metri, sopra la prateria. Sfrutta le correnti ascensionali.
"Allora è un falco di palude femmina, nessun dubbio".
Non riesco a staccare lo sguardo...
"È l'insostenibile leggerezza dell'essere! Chi conosce i rapaci sa cosa vuol dire. Dovresti vedere cosa fa il gheppio".
Buon dio, e che fa di tanto speciale?
"Lo spirito santo. In un viaggio come il tuo sarebbe importante vederlo".
Che roba è?
"È quando lui tiene la posizione da fermo sbattendo le ali come un colibrì. È il suo modo di cacciare dall'aria. Un volo ultraterreno".

Dimmi di Federico.
"Lanciava i falchi e li faceva tornare per dimostrare al popolo il suo potere sul cielo. La caccia col falco pellegrino era uno strumento di governo... Federico girava con una corte di animali esotici che erano simboli viaggianti. Elefanti, cammelli... Costruì castelli da caccia straordinari... non dimenticare Lagopèsole, è lì a due passi".

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La rocca di Monteverde, a un tiro di schioppo da Aquilonia, è zeppa di nidi di rondine e profuma di salsa di pomodoro. C'è una donna sulla porta di un vicolo, sulla "Topolina" ci farebbe un giro anche subito se non dovesse scodellare il pranzo a cinque pargoli. È incantata dal trabiccolo venuto dal Nord.

Le chiedo: ma a voi che è successo col terremoto del 1930?
"Niente ci fece il terremoto".
Ma voi che santo avete?
"San Rocco abbiamo".
Si vede che San Rocco funziona meglio di Vito, il santo di Aquilonia.
"Si capisce di sì".
Passa un invalido su autocarrozzino Guzzi rosso fiamma.
"Ah, ci avete una Topolino! Anche Beppe di Lorenzo ce l'aveva, ma adesso è morto".
Gli chiedo dove sta il bar, ho una sete formidabile.
"Sta sulla strada in coppa o' santo".
San Rocco?
"E certo, noi San Rocco abbiamo".

Al bar trovo un vecchio arzillo, Salvatore, 84 anni. Ha passato una vita in Germania a lavorare.
Gli chiedo perché è andato all'estero.
Lui: "Perché nel Nord Italia mi chiamavano mangiasapone e mi faceva male. In Germania invece ero il benvenuto".
Le van bene i tedeschi?
"Li tedeschi erano come Federico Secondo, fu il nostro re migliore. Magari averlo oggi uno così". Esce dal bar e mostra il grano a perdita d'occhio. "Guardi questa terra, dovrebbe dar da mangiare a tutti, invece ci facciamo del male tra noi e ci tocca emigrare".

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Rapone, la sera, è pieno di rondini e bambini. C'è la festa di San Vito con tappeti di fiori, banda che suona Fratelli d'Italia, prelati col sindaco, il concerto di Orietta Berti. Ma mentre chiacchiero con un paesano che mi offre del vino e una badante rumena di nome Doana, chi ti vedo arrivare? Vinicio Capossela, il bardo già incontrato al Nord, nella seconda notte di viaggio, segnata da un'indimenticabile bisboccia con fuoco, vino e salsicce in aperta campagna.

È vestito di nero, attillato e lustro, da capo-zingaro, con Borsalino nero. S'è già infilato, felice, nella Topolino. La concupisce, la annusa. Ignora un gruppo di ragazzine che improvvisano sulla strada un balletto in suo onore. Recita: "Quando la sorte è amara / c'è Rapone o Carbonara". Vuol dire: se non trovi ragazze, cercale a Rapone o Carbonara. Ma lui è alla Topolino che dedica il vecchio detto di casa sua. Calitri, dall'altra parte della valle. La sua personalissima Macondo, che domani visiteremo con lui.

(17 agosto 2006)


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