Misinterpreting Copyright -- A series of
errors
http://www.gnu.org/philosophy/misinterpreting-copyright.html
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L'interpretazione sbagliata del copyright -- una serie di errori
Qualcosa di strano e pericoloso sta accadendo
alle legislazioni in materia di copyright [diritto d'autore].
Come stabilito dalla Costituzione degli Stati Uniti, il copyright
esiste a beneficio degli utenti -- chiunque legga dei libri, ascolti
della musica, guardi dei film o utilizzi del software -- non nell'interesse
degli editori o degli autori. Tuttavia anche quando la gente tende
sempre più a rifiutare e disubbidire alle restrizioni sul
copyright imposte "a loro beneficio," il governo statunitense
vi aggiunge ulteriori restrizioni, nel tentativo di intimorire
il pubblico e costringerlo ad ubbidire sotto la pressione di nuove
e pesanti sanzioni.
In che modo le procedure sul copyright sono divenute diametralmente
opposte agli obiettivi dichiarati? E come possiamo fare in modo
che tornino ad allinearsi con tali obiettivi? Per comprendere
la situazione, è bene partire dando un'occhiata alle radici
delle leggi sul copyright degli Stati Uniti, il testo della stessa
Costituzione.
Il copyright nella Costituzione statunitense
Nella stesura del testo della Costituzione, l'idea che agli autori potesse essere riconosciuto il diritto al monopolio sul copyright venne proposta -- e rifiutata. I padri fondatori degli Stati Uniti partirono da una premessa diversa, secondo cui il copyright non è un diritto naturale degli autori, quanto piuttosto una condizione artificiale concessa loro per il bene del progresso. La Costituzione permette l'esistenza di un sistema sul copyright tramite il seguente paragrafo (articolo I, sezione 8):
[Il Congresso avrà il potere di] promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni.
La Corte Suprema ha ripetutamente affermato che promozione del progresso significa apportare dei benefici gli utenti delle opere sotto copyright. Ad esempio, nella causa Fox Film v. Doyal, la Corte ha sostenuto:
L'unico interesse degli Stati Uniti e l'obiettivo primario nell'assegnazione del monopolio [sul copyright] va cercato nei benefici generali derivanti al pubblico dai lavori degli autori.
Questa decisione fondamentale illustra il motivo per cui nella Costituzione statunitense il copyright non venga imposto, bensì soltanto consentito in quanto opzione possibile -- e perché se ne ipotizza la durata per "periodi di tempo limitati". Se si trattasse di un diritto naturale, qualcosa assegnato agli autori perché lo meritano, nulla potrebbe giustificarne la cessazione dopo un determinato periodo, al pari dell'abitazione di qualcuno che dovesse divenire di proprietà pubblica trascorso un certo tempo dalla sua costruzione.
Il "contratto sul copyright"
Il sistema del copyright funziona tramite
l'assegnazione di privilegi e relativi benefici per editori e
autori. Ma non lo fa nell'interesse di costoro, quanto piuttosto
per modificarne il comportamento: per fornire un incentivo agli
autori a scrivere di più e agli editori a pubblicare di
più. In effetti, il governo utilizza i diritti naturali
del pubblico, a nome di quest'ultimo, come parte di una trattativa
contrattuale finalizzata ad offrire allo stesso pubblico una maggior
numero di opere. Gli esperti legali definiscono questo concetto
"contratto sul copyright". Qualcosa di analogo all'acquisto
da parte del governo di un'autostrada o di un aeroplano usando
i soldi dei contribuenti, con la differenza che qui il governo
spende la nostra libertà anziché il nostro denaro.
Ma l'esistenza di un tale contratto può davvero considerarsi
un buon affare per il pubblico? È possibile considerare
molte altri accordi alternativi; qual'è il migliore? Ogni
singola questione inerente le procedure sul copyright rientra
nel contesto di una simile domanda. Se non si comprende pienamente
la natura di tale domanda, tenderemo a prendere decisioni errate
sulle varie questioni coinvolte.
La Costituzione autorizza l'assegnazione dei poteri del copyright
agli autori. In pratica, costoro tipicamente li cedono agli editori;
generalmente spetta a questi ultimi, non agli autori, l'esercizio
di tali poteri onde trarne la maggior parte dei benefici, pur
se agli autori ne viene riservata una piccola porzione. Ne consegue
che normalmente sono gli editori a spingere per l'incremento dei
poteri conferiti dal copyright. Onde offrire una riflessione più
attenta sulla realtà del copyright, piuttosto che sui suoi
miti, il presente saggio cita gli editori, anziché gli
autori, come detentori dei poteri del copyright. Ci si riferisce
inoltre agli utenti delle opere sotto copyright con il termine
di "lettori", pur se non sempre s'intende l'azione di
leggere, perché "utenti" è troppo astratto
e lontano.
Primo errore: "il raggiungimento di un equilibrio"
Il contratto sul copyright pone il pubblico
al primo posto: il beneficio per il lettore è un fine in
quanto tale; i benefici (nel caso esistano) per gli editori non
rappresentano altro che un mezzo per il raggiungimento di quel
fine. Gli interessi dei lettori e quelli degli editori sono qualitativamente
diseguali nelle rispettive priorità. Il primo passo verso
un'errata interpretazione sugli obiettivi del copyright consiste
nell'elevare gli interessi degli editori al medesimo livello d'importanza
di quelli dei lettori.
Si dice spesso che la legislazione statunitense sul copyright
mira al "raggiungimento di un equilibrio" tra gli interessi
degli editori e quelli dei lettori. I sostenitori di questa interpretazione
la presentano come una riproposizione delle posizioni di partenza
affermate nella Costituzione; in altri termini, ciò viene
ritenuto l'equivalente del contratto sul copyright.
Ma le due interpretazione sono tutt'altro che equivalenti; sono
differenti a livello concettuale, come pure nelle implicazioni
annesse. L'idea di equilibrio dà per scontato che gli interessi
di editori e lettori differiscano per importanza soltanto a livello
quantitativo, rispetto a "quanto peso" va assegnato
a tali interessi e in quali circostanze questi vadano applicati.
Allo scopo di inquadrare la questione in un simile contesto, spesso
si ricorre al concetto di "partecipazione equa"; in
tal modo si assegna il medesimo livello d'importanza a ciascun
tipo d'interesse per quanto concerne le decisioni sulle procedure
applicative. Questo scenario ripudia la distinzione qualitativa
tra gli interessi degli editori e quelli dei lettori che è
alla radice della partecipazione del governo nelle trattative
contrattuali sul copyright.
Le conseguenze di una simile alterazione della situazione appaiono
di ampia portata, perché la grande protezione del pubblico
inclusa nel contratto sul copyright -- l'idea secondo cui i privilegi
del copyright possano trovare giustificazione soltanto in nome
dei lettori, mai in nome degli editori -- viene ripudiata dall'interpretazione
del "raggiungimento di un equilibrio". Poichè
l'interesse degli editori è considerato un fine in se stesso,
può motivarne i privilegi sul copyright; in altre parole,
il concetto di "equilibrio" sostiene che i privilegi
possano trovare giustificazione in nome di qualche soggetto che
non sia il pubblico.
A livello pratico, la conseguenza di tale concetto di "equilibrio"
consiste nel ribaltare l'onere di motivare i cambiamenti da apportare
alle legislazioni in materia. Il contratto sul copyright impegna
gli editori a convincere i lettori nel cedere loro determinate
libertà. Praticamente l'idea di equilibrio capovolge quest'onere,
perché in genere non esiste alcun dubbio che gli editori
trarranno beneficio dai privilegi aggiuntivi. Così, a meno
di non comprovare un danno arrecato ai lettori, sufficiente da
"pesare di più" di tale beneficio, siamo inclini
a concludere che agli editori vada garantito pressoché
qualsiasi privilegio richiesto.
L'idea del "raggiungimento di un equilibrio" tra editori
e lettori va respinta, in quanto nega a questi ultimi la priorità
cui hanno diritto.
Raggiungere un equilibrio con cosa?
Quando il governo acquista qualcosa per
il pubblico, agisce in nome di quest'ultimo; è sua responsabilità
ottenere l'accordo più vantaggioso possibile -- per il
pubblico, non per gli altri soggetti coinvolti nella trattativa.
Ad esempio, quando firma un contratto con degli imprenditori edili
per la costruzione di autostrade, il governo tende a spendere
la minima quantità possibile di denaro pubblico. Le agenzie
statali ricorrono a gare d'appalto competitive per spingere i
prezzi al ribasso.
A livello pratico, il prezzo non può risultare pari a zero,
perché gli imprenditori non accettano contratti così
bassi. Pur in assenza di condizioni particolari, costoro hanno
i medesimi diritti di ogni cittadino in una società libera,
compreso quello di rifiutare contratti svantaggiosi; per un imprenditore
anche l'offerta più bassa potrebbe rivelarsi sufficiente
onde guadagnare qualcosa. Esiste quindi una sorta di equilibrio.
Ma non si tratta di un equilibrio deliberatamente cercato tra
due interessi che esigono considerazioni particolari. È
un equilibrio tra un obiettivo pubblico e le dinamiche del mercato.
Il governo tenta di ottenere per i contribuenti motorizzati il
miglior contratto possibile nel contesto di una società
libera e di un libero mercato.
Nella trattativa contrattuale sul copyright, il governo spende
la nostra libertà anziché il nostro denaro. La prima
è più preziosa del secondo, motivo per cui la responsabilità
del governo nello spenderla in maniera saggia e parsimoniosa è
decisamente maggiore di quella relativa alle spese economiche.
Lo stato non deve mai porre gli interessi degli editori sullo
stesso piano della libertà del pubblico.
Non "equilibrio" ma "scambio"
L'idea di raggiungere un equilibrio tra
gli interessi dei lettori e quelli degli editori è la maniera
sbagliata di giudicare le procedure sul copyright, ma in realtà
esistono due interessi da soppesare: entrambi riguardano i lettori.
Questi hanno interesse nella propria libertà per l'utilizzo
delle opere pubblicate; a seconda delle circostanze, possono inoltre
avere interesse nell'incoraggiare la pubblicazione tramite qualche
sistema d'incentivazione.
Il termine "equilibrio", nelle discussioni in tema di
copyright, è divenuto sinonimo di scorciatoia per l'idea
di "raggiungere l'equilibrio" tra lettori ed editori.
Di conseguenza, l'uso di tale termine per indicare questi due
interessi dei lettori provocherebbe confusione -- c'è bisogno
di un altro termine.
In generale, quando un'entità presenta due obiettivi in
parziale conflitto tra loro e non è in grado di raggiungerli
entrambi in maniera completa, la situazione viene definita "scambio".
Pertanto, anziché riferirci al "raggiungimento del
giusto equilibrio" tra entità diverse, dovremmo parlare
di "trovare il giusto scambio tra il consumo e la conservazione
della libertà."
Secondo errore: privilegiare un unico aspetto
Il secondo errore delle politiche sul copyright
consiste nell'adottare l'obiettivo di massimizzare la quantità
di opere pubblicate, non soltanto di incrementarle. L'erroneo
concetto del "raggiungimento del giusto equilibrio"
aveva posto gli editori al medesimo livello dei lettori; questo
secondo errore li eleva molto al di sopra.
Quando compriamo qualcosa, generalmente non acquistiamo l'intera
quantità di articoli disponibili in magazzino o il modello
più costoso. Preferiamo piuttosto risparmiare per ulteriori
compere, acquistando soltanto quanto ci occorre di una determinata
merce, e scegliendo un modello di buon livello anziché
della qualità migliore in assoluto. Sulla base del principio
della diminuzione del profitto, spendere tutti i soldi per un
unico articolo si rivela con tutta probabilità una gestione
inefficiente delle risorse disponibili.
La diminuzione del profitto si applica al copyright come a qualsiasi
acquisto. Le prime libertà che dovremmo scambiare sono
quelle di cui potremo fare più facilmente a meno, pur offrendo
il maggiore incoraggiamento possibile alla pubblicazione. Mentre
barattiamo le libertà aggiuntive via via più familiari,
ci rendiamo conto come ogni scambio comporti un sacrifico maggiore
del precedente, portando al contempo un minore incremento all'attività
letteraria. Assai prima che tale incremento raggiunga quota zero,
possiamo ben dire che ciò non giustifica ulteriori aumenti
di prezzo; dovremmo quindi raggiungere un accordo che preveda
l'aumento del numero delle pubblicazioni in circolazione, senza
tuttavia arrivare al massimo possibile.
L'accettazione dell'obiettivo di massimizzare la quantità
delle pubblicazioni comporta il rifiuto aprioristico di tutti
questi accordi più saggi e vantaggiosi -- tale posizione
impone al pubblico di cedere quasi tutta la propria libertà
di utilizzo delle opere pubblicate, in cambio di un incremento
modesto delle pubblicazioni.
La retorica della massimizzazione
In pratica, l'obiettivo di massimizzare
le pubblicazioni prescindendo dal prezzo imposto alla libertà
si fonda sulla diffusa retorica secondo cui la copia pubblica
sia qualcosa di illegale, ingiusto e intrinsecamente sbagliato.
Ad esempio, gli editori definiscono "pirati" coloro
che copiano, termine dispregiativo mirato ad equiparare l'assalto
a una nave e la condivisione delle informazioni con il vicino
di casa. (Quel termine dispregiativo era già stato impiegato
dagli autori per descrivere quegli editori che avevano scovato
dei modi legali per pubblicare edizioni non autorizzate; il suo
utilizzo attuale da parte degli editori riveste un significato
pressoché opposto). Questa retorica ripudia direttamente
le basi costituzionali a supporto del copyright, ma si presenta
come rappresentativa dell'inequivocabile tradizione del sistema
legale americano.
In genere la retorica del "pirata" viene accettata perché
inonda a tal punto tutti i media che pochi riescono ad afferrarne
la radicalità. Si dimostra efficace perché, se la
copia a livello pubblico è fondamentalmente qualcosa di
illegittimo, non potremmo mai obiettare alla richiesta degli editori
di cedere quella libertà che ci appartiene. In altre parole,
quando il pubblico viene sfidato a spiegare perché gli
editori non dovrebbero ottenere ulteriori poteri, il motivo più
importante di tutti -- "vogliamo copiare" -- subisce
una degradazione aprioristica.
Ciò non lascia spazio per controbattere l'incremento di
potere assegnato al copyright se non ricorrendo a questioni collaterali.
Di conseguenza oggi l'opposizione al maggior potere del copyright
poggia quasi esclusivamente su tali questioni collaterali, e non
osa mai citare la libertà di distribuire delle copie in
quanto legittimo valore pubblico.
A livello pratico, l'obiettivo della massimizzazione consente
agli editori di sostenere che "una determinata pratica sta
portando alla riduzione delle vendite - o crediamo possa farlo
-- così riteniamo che ciò sia causa della diminuzione
di una quantità imprecisata di pubblicazioni, e di conseguenza
occorre proibirla." Siamo portati a credere all'oltraggiosa
conclusione secondo cui il bene pubblico vada misurato dalle vendite
degli editori. Quello che va bene per i Grandi Media va bene per
gli Stati Uniti.
Terzo errore: massimizzare il potere degli editori
Una volta riconosciuto agli editori l'assenso
ad una politica mirata alla massimizzazione della quantità
di pubblicazioni in circolazione, costi quel che costi, il passo
successivo è quello di ritenere che ciò significhi
assegnare loro i massimi poteri possibili -- ricorrendo al copyright
per regolamentare ogni impiego immaginabile di un'opera, oppure
applicando altri strumenti legali dall'effetto analogo, tipo le
licenze accettate automaticamente dall'utente nel momento in cui
apre la confezione originale di un prodotto. Quest'obiettivo,
che implica l'abolizione di ogni uso legittimo e del diritto alla
prima vendita, viene perseguito con forza ad ogni livello governativo,
dai singoli stati USA alle organizzazioni internazionali.
Si tratta una procedura errata perché norme sul copyright
eccessivamente rigide impediscono la creazione di opere nuove
e utili. Ad esempio, Shakespeare prese in prestito la trama di
alcuni suoi testi teatrali da altri lavori in circolazione già
da alcuni decenni; applicando a quell'epoca le odierne norme sul
copyright, le sue opere avrebbero dovuto considerarsi illegali.
Pur mirando alla maggiore quantità possibile di pubblicazioni,
volendo ignorarne il prezzo ai danni del pubblico, è sbagliato
arrivarci massimizzando i poteri degli editori. Come mezzo per
la promozione del progresso, ciò si rivela controproducente.
I risultati dei tre errori
L'attuale tendenza delle legislazioni sul
copyright è quella di concedere agli editori maggiori poteri
per periodi di tempo più lunghi. Il principio concettuale
del copyright, che emerge distorto a seguito della serie di errori
sopra illustrati, raramente offre la base per poter dire no a
tale tendenza. A parole i legislatori sostengono l'idea del copyright
al servizio del pubblico, mentre in realtà cedono a qualunque
richiesta degli editori.
Ad esempio, così si è espresso il senatore statunitense
Hatch nel 1995, durante la presentazione del disegno di legge
S. 483 finalizzato all'estensione dei termini del copyright di
ulteriori 20 anni:
Credo che oggi il punto sia quello di dare una risposta alla domanda se gli odierni termini del copyright possano tutelare adeguatamente gli interessi degli autori e alla questione connessa se quei termini possano continuare a fornire un sufficiente incentivo per la creazione di nuove opere.
Questa legge ha esteso il copyright su opere
già pubblicate, scritte a partire dal 1920. La modifica
è stata un regalo agli editori senza alcun possibile beneficio
per il pubblico, poichè è impossibile aumentare
in maniera retroattiva il numero di libri pubblicati allora. Tuttavia
ciò costa al pubblico una libertà oggi significativa
-- la redistribuzione dei libri del passato.
La normativa estende inoltre il copyright di opere che devono
essere ancora scritte. Per i lavori su commissione, il copyright
durerà 95 anni invece degli attuali 75. In teoria ciò
dovrebbe rivelarsi un maggiore incentivo per la creazione di nuove
opere; ma qualunque editore che sostenga la necessità di
un simile incentivo dovrebbe motivarlo con le previsioni di bilancio
fino all'anno 2075.
Inutile aggiungere che il Congresso non ha posto in dubbio gli
argomenti degli editori: la legislazione per l'estensione del
copyright è stata approvata nel 1998. È stata chiamata
Sonny Bono Copyright Term Extension Act, riprendendo il nome di
uno dei proponenti poi scomparso in quell'anno. La vedova, che
ne ha proseguito il mandato parlamentare, ha rilasciato la seguente
dichiarazione:
In realtà, Sonny voleva far durare il copyright all'infinito. Qualcuno dello staff mi ha informato che ciò violerebbe la Costituzione. Vi invito tutti a lavorare con me per rafforzare le norme sul copyright in ogni modo possibile. Come sapete, esiste anche una proposta di Jack Valenti per farlo durare indefinitamente meno un giorno. Forse la commissione potrebbe prenderla in esame nel corso della prossima sessione congressuale.
La Corte Suprema ha accettato di esaminare
la richiesta dell'annullamento di tali norme sulla base del fatto
che un'estensione retroattiva sia contraria all'obiettivo costituzionale
della promozione del progresso.
Un'altra legge, approvata nel 1996, ha trasformato in reato grave
la copia, in quantità sufficientemente elevate, di qualsiasi
lavoro pubblicato, anche nel caso di successiva distribuzione
agli amici per pura gentilezza. In precedenza ciò non veniva
affatto considerato reato negli Stati Uniti.
Una legislazione finanche peggiore, il Digital Millennium Copyright
Act (DMCA), è stata progettata per imporre nuovamente protezioni
anti-copia (detestate dagli utenti informatici), rendendo reato
ogni infrazione a tali protezioni, o perfino la pubblicazione
di informazioni sul modo di superarle. Questa legge dovrebbe essere
chiamata "Domination by Media Corporations Act" (legge
per la dominazione delle corporation dei media) perché
consente di fatto agli editori la possibilità di scrivere
leggi sul copyright a proprio vantaggio. Queste norme permettono
loro l'imposizione di qualsiasi tipo di restrizioni sull'utilizzo
di un'opera, con le annesse sanzioni repressive, purché
le opere siano dotate di qualche tipo di crittazione o di licenza
onde poterle applicare.
Una delle tesi a sostegno di questa legge era che sarebbe servita
all'implementazione di un recente trattato mirato all'espansione
dei poteri del copyright. Il trattato è stato promulgato
dalla World Intellectual Property Organization, entità
in cui dominano gli interessi dei detentori di copyright e di
brevetti, con l'aiuto della pressione esercitata dall'amministrazione
Clinton; poiché il trattato non fa altro che ampliare il
potere del copyright, è assai dubbio che possa servire
gli interessi del pubblico in altri paesi. In ogni caso, la normativa
andò ben oltre quanto richiesto dal trattato stesso.
Le biblioteche costituirono un elemento chiave nell'opposizione
a quella proposta, particolarmente riguardo alle norme che impedivano
le varie forme di copia considerate "uso legittimo".
Come hanno risposto gli editori? L'ex deputato Pat Schroeder,
attualmente impegnato in azioni di lobby per conto della Association
of American Publisher, l'Associazione degli editori statunitensi,
ha sostenuto che "gli editori non possono aderire alle richieste
[delle biblioteche]". Poiché queste ultime chiedevano
semplicemente di mantenere parte dello status quo, si potrebbe
replicare chiedendosi come abbiano fatto gli editori a sopravvivere
fino ad oggi.
Il parlamentare Barney Frank, nel corso di una riunione con il
sottoscritto e altri oppositori della legge, mostrò fino
a che punto sia stato travisato il concetto di copyright incluso
nella costituzione. Secondo il deputato statunitense, occorreva
stabilire urgentemente nuovi poteri, sostenuti da pene severe,
perché "l'industria cinematografica è preoccupata,"
come pure "il settore discografico" e altre "industrie".
Allora gli ho chiesto, "Ma ciò sarebbe forse a favore
dell'interesse pubblico?" La sua replica è stata:
"Perché mai tiri fuori l'interesse pubblico? Queste
persone creative non devono cedere i propri diritti a favore dell'interesse
pubblico!" Così "l'industria" viene identificata
con le "persone creative" cui dà lavoro, il copyright
è trattato come un diritto che le appartiene e la costituzione
viene completamente ribaltata.
IL DMCA è stato approvato nel 1998. Nella stesura finale
si legge che l'uso legittimo rimane formalmente tale, ma gli editori
hanno la facoltà di vietare tutto il software o l'hardware
necessario per poterlo mettere in pratica. Di fatto, ogni l'uso
legittimo viene proibito.
Sulla base di questa legge, l'industria cinematografica ha imposto
la censura sul software libero per la lettura e la visione dei
DVD, e perfino sulle relative informazioni. Nell'aprile 2001 il
professor Edward Felten della Princeton University, minacciato
di denuncia dalla Recording Industry Association of America (RIAA),
ha ritirato una ricerca scientifica in cui illustrava quanto aveva
imparato sul sistema cifrato proposto per impedire l'accesso alla
musica registrata.
Stiamo inoltre assistendo all'avvento di libri elettronici (e-book)
che cancellano molte delle libertà tipiche del lettore
tradizionale -- ad esempio, quella di prestare il libro a un amico,
di rivenderlo a un libreria dell'usato, di prenderlo in prestito
da una biblioteca, di acquistarlo senza dover fornire le proprie
generalità al database aziendale, perfino la libertà
di poterlo rileggere. Generalmente i libri elettronici cifrati
impediscono tutte queste libertà -- è possibile
leggerli soltanto grazie ad un particolare software segreto, progettato
per imporre simili restrizioni al lettore.
Non acquisterò mai uno di questi e-book crittati e protetti,
e spero che anche voi li rifiuterete. Se un libro elettronico
non offre le medesime libertà di un tradizionale volume
cartaceo, non accettatelo!
Chiunque diffonda in modo indipendente un software in grado di
leggere gli e-book cifrati rischia di andare in galera. Nel 2001
un programmatore russo, Dmitry Sklyarov, venne arrestato mentre
si trovava negli Stati Uniti per intervenire ad una conferenza,
perché aveva scritto un tale programma in Russia, dove
ciò era pienamente legale. Ora anche la Russia sta varando
una legge per vietare simili attività, e recentemente l'Unione
Europea ne ha adottata una analoga.
Finora il mercato di massa dei libri elettronici si è dimostrato
un fallimento commerciale, ma non perché i lettori abbiano
deciso di difendere le proprie libertà; gli e-book sono
poco interessanti per altri motivi, tra cui la difficile lettura
dei testi sul monitor del computer. A tempi lunghi non possiamo
affidare la nostra tutela a questo felice incidente di percorso;
il prossimo tentativo di promuovere gli e-book prevede l'utilizzo
di "carta elettronica" -- oggetti somiglianti ai comuni
volumi all'interno dei quali scaricare libri elettronici crittati
e protetti. Se questa superficie simile alla carta dovesse risultare
più leggibile degli odierni monitor, saremo chiamati a
tutelare la nostra libertà onde poterla conservare. Nel
frattempo gli e-book vanno aprendosi un mercato di nicchia: la
New York University ed altri istituti richiedono agli studenti
di acquistare i libri di testo nel formato elettronico protetto.
L'industria dei media non è ancora soddisfatta. Nel 2001
il senatore Hollings, sovvenzionato dalla Disney, ha presentato
una proposta di legge chiamata "Security Systems Standards
and Certification Act" (SSSCA), in seguito rinominata Consumer
Broadband and Digital Television Promotion Act, la quale prevede
la presenza in tutti i computer (ed altri apparecchi digitali
per la registrazione e la lettura) di sistemi anti-copia imposti
dal governo. Ciò rappresenta l'obiettivo finale dell'industria,
ma il primo punto all'ordine del giorno mira a vietare qualunque
dispositivo in grado di intervenire sulla sintonia della HDTV
(High Definition TV, la TV digitale ad alta definizione), a meno
che non sia progettato in modo tale da impedire all'utente di
"manometterla" (ovvero, di modificarla a scopo personale).
Poichè il software libero è tale proprio perché
gli utenti possano modificarlo, qui ci troviamo di fronte per
la prima volta a una proposta di legge che vieta esplicitamente
il software libero per determinate funzioni. Certamente seguiranno
analoghi divieti per ulteriori funzioni. Nel caso la Federal Communications
Commission statunitense dovesse adottare simili proposte, programmi
di software libero già esistenti quali GNU Radio verrebbero
censurati.
Occorre mobilitarsi a livello politico per bloccare queste normative
(a partire dai seguenti siti web: http://www.digitalspeech.org
e http://www.eff.org).
Come arrivare a un contratto equo
Qual'è la maniera adeguata per stabilire
una corretta politica del copyright? Se quest'ultimo è
un patto raggiunto a nome del pubblico, dovrebbe innanzitutto
servire l'interesse pubblico. Il dovere del governo, quando si
appresta a smerciare la libertà pubblica, è quello
di vendere soltanto quanto necessario e al prezzo più caro
possibile. Come minimo dovremmo controbilanciare al massimo l'estensione
del copyright pur conservando un'analoga quantità di pubblicazioni
disponibili.
Poiché è impossibile raggiungere questo livello
minimo di libertà tramite gare d'appalto competitive, come
nel caso dei progetti edilizi, quale strada conviene seguire?
Un metodo possibile consiste nel ridurre i privilegi del copyright
in maniera graduale ed osservarne i risultati. Verificando se
e quando si raggiunge un livello misurabile nella diminuzione
delle pubblicazioni, potremo capire quanto sia il potere del copyright
effettivamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi
del pubblico. Ciò va giudicato tramite l'osservazione diretta,
non sulla base di quanto gli editori ritengano debba accadere,
perché questi hanno tutto l'interesse a esagerare le previsioni
negative in caso ne venga ridotto in qualche modo il potere.
Le politiche sul copyright comprendono svariate dimensioni tra
loro indipendenti, le quali possono essere organizzate in maniera
separata. Dopo aver raggiunto il livello minimo relativo a una
di tali dimensioni, è sempre possibile ridurre altre dimensioni
del copyright pur mantenendo la voluta quantità di pubblicazioni.
Una dimensione importante del copyright riguarda la sua durata,
che tipicamente oggi è dell'ordine di un secolo. La limitazione
del monopolio sulla copia a dieci anni, a partire dalla data di
pubblicazione di un'opera, potrebbe rivelarsi un buon passo iniziale.
Un altro aspetto del copyright, quello concernente la realizzazione
di lavori derivati, potrebbe invece continuare a esistere per
un periodo più lungo.
Perché si parte dalla data di pubblicazione? Perché
il copyright su lavori inediti non limita direttamente la libertà
dei lettori; avere la libertà di copiare un'opera è
qualcosa di fittizio quando non ne circolano degli esemplari.
Consentire perciò maggior tempo per pubblicare qualcosa
non procura alcun danno. Raramente gli autori (che in genere prima
della pubblicazione sono titolari del copyright) sceglieranno
di ritardare la pubblicazione soltanto per estendere all'indietro
l'esaurimento dei termini del copyright.
Perché dieci anni? Perché è una proposta
adeguata; a livello pratico possiamo ritenere che questa riduzione
produrrà scarso impatto sulle odierne attività editoriali
in generale. Per la maggior parte dei settori e dei generi, le
opere di successo sono molto remunerative nel giro di qualche
anno, e perfino tali opere di successo generalmente vanno fuori
catalogo assai prima dei dieci anni. Anche per i testi di consultazione
generale, la cui vita d'utilità può estendersi fino
a parecchi decenni, un copyright di dieci anni dovrebbe risultare
sufficiente: se ne pubblicano regolarmente nuove stesure aggiornate,
e gran parte dei lettori preferiranno acquistare l'ultima edizione
sotto copyright anziché una versione di dominio pubblico
del decennio precedente.
Dieci anni potrebbe comunque essere un periodo più lungo
del necessario: una volta sistemate le cose, potremmo provare
un'ulteriore riduzione per meglio rifinire il sistema. Nel corso
di una discussione sul copyright durante una manifestazione letteraria,
dove proponevo il termine dei dieci anni, un noto autore di testi
fantastici che mi sedeva accanto protestò con veemenza,
sostenendo che qualunque termine superiore ai cinque anni sarebbe
stato intollerabile.
Ma non c'è motivo di applicare la medesima durata a tutti
i tipi di lavori. Il mantenimento di una stretta uniformità
per le politiche sul copyright non è cruciale all'interesse
pubblico, e già le legislazioni correnti prevedono numerose
eccezioni per impieghi e ambiti particolari. Sarebbe folle pagare
per ogni progetto autostradale la stessa somma necessaria per
i progetti più difficili realizzati nelle aree più
costose del paese; parimenti folle sarebbe "pagare"
ogni tipo di produzione artistica al prezzo più caro in
termini di libertà ritenuto necessario per un'opera specifica.
Così forse i romanzi, i dizionari, i programmi informatici,
le canzoni, le sinfonie e i film dovrebbero seguire una durata
diversa per il copyright, in modo da poterla ridurre per ciascun
genere al termine necessario a garantire la pubblicazione di un
certo numero di lavori. Forse i film che durano più di
un'ora potrebbero avere un copyright di vent'anni, considerandone
le spese di produzione. Nel mio settore, la programmazione informatica,
tre anni dovrebbero bastare, perché i cicli di produzione
sono anche più brevi di un tale periodo.
Un'altra dimensione delle politiche sul copyright riguarda l'estensione
dell'uso legittimo: quelle modalità di riproduzione totale
o parziale di un lavoro, legalmente consentite anche quando l'opera
pubblicata è coperta da copyright. Il primo passo naturale
nella riduzione di questa dimensione del potere del copyright
consiste nel permettere la copia e la distribuzione tra i singoli
individui a livello occasionale, privato e in piccole quantità.
In tal modo si eviterebbe l'intrusione della polizia nella vita
privata della gente, pur avendo probabilmente scarso effetto sulle
vendite dei lavori pubblicati. (Potrebbe rivelarsi necessario
intraprendere ulteriori passi legali onde assicurarsi che le licenze
incluse automaticamente nelle confezioni originali dei prodotti
non possano essere utilizzate in sostituzione del copyright per
limitare tali attività di copia). L'esperienza di Napster
dimostra che dovremmo altresì consentire la redistribuzione
integrale non-commerciale ad una comunità più vasta
-- quando una parte così ampia del pubblico decide di copiare
e condividere qualcosa, considerando assai utili simili pratiche,
ciò potrà essere bloccato soltanto ricorrendo a
misure draconiane, e il pubblico merita di avere quanto chiede.
Per i romanzi, e in generale per le opere d'intrattenimento, la
redistribuzione integrale non-commerciale potrebbe dimostrarsi
una libertà sufficiente per i lettori. I programmi informatici,
essendo utilizzati per scopi funzionali (portare a termine determinati
compiti), richiedono ulteriori libertà aggiuntive, compresa
la pubblicazione di versioni migliorate. A motivazione delle libertà
che dovrebbero avere gli utenti di software si veda il testo incluso
in questo stesso volume "La definizione di software libero".
Tuttavia un compromesso accettabile potrebbe rivelarsi quello
di rendere tali libertà universalmente disponibili soltanto
dopo un ritardo di due o tre anni dalla data di pubblicazione
del programma.
Questa serie di modifiche finirebbero per allineare il copyright
con la volontà del pubblico di usare le tecnologie digitali
per copiare. Senza dubbio gli editori considereranno "sbilanciate"
simili proposte; potrebbero minacciare di prendere le proprie
biglie e andarsene via, ma non lo faranno sul serio, perché
il gioco rimarrà comunque redditizio e sarà l'unico
possibile.
Mentre si vanno considerando le possibili riduzioni ai poteri
del copyright, dobbiamo accertarci che le varie aziende del settore
non lo sostituiscano semplicemente con apposite licenze relative
all'utente finale. Sarà necessario vietare l'uso di contratti
mirati a imporre restrizioni sulla copia che vadano oltre quelle
già previste dal copyright. Nel sistema legale statunitense
è pratica comune stabilire simili disposizioni su quanto
previsto dai contratti non-negoziabili per settori di grande consumo.
Una nota personale
La mia attività riguarda la programmazione
informatica, non l'ambito giuridico. Mi sono interessato alle
questioni legate al copyright perché è impossibile
evitarle nel mondo delle reti informatiche (essendo internet quella
più vasta al mondo). In quanto utente di computer e di
reti informatiche per trent'anni, attribuisco molto valore alle
libertà che abbiamo abdicato, e a quelle che potremmo perdere
in futuro. In quanto autore, rifiuto la mistica romantica che
ci considera alla stregua di creature semidivine, immagine spesso
citata dagli editori a giustificare l'incremento di poteri sul
copyright agli autori, i quali poi li trasferiscono agli stessi
editori.
Per la gran parte questo saggio presenta fatti e ragionamenti
facilmente verificabili, oltre a una serie di proposte su cui
ciascuno di noi può farsi una propria opinione. Chiedo
tuttavia al lettore di accettare un solo elemento basato sulla
mia parola: autori come il sottoscritto non meritano di avere
poteri speciali sugli altri. Se qualcuno vuole ricompensarmi ulteriormente
per il software o i libri che ho scritto, accetto volentieri un
assegno -- ma vi invito a non rinunciare alla vostra libertà
a nome mio.
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Questa è la prima versione mai pubblicata
di questo saggio, e fa parte del libro Free Software,
Free Society: The Selected Essays of Richard M. Stallman,
GNU Press, 2002
La copia letterale e la distribuzione di questo testo nella sua integrità sono permesse con qualsiasi mezzo, a condizione che sia mantenuta questa nota.