Garante Privacy
   
   
   
24 novembre 2002   
 

Newsletter 24 novembre - 1 dicembre 2002
  
  

  • I Costi della privacy: opinioni a confronto negli Usa
  • I consumatori Usa chiedono più privacy alle imprese
  • La privacy, priorità anche negli Usa. Allarme per spamming e cookies
  • Spamming e protezione dei dati. Uno studio della commissione UE

 

I Costi della privacy: opinioni a confronto negli Usa
(da un articolo di Declan McCullagh su WiredNews e dall’articolo scritto dal Prof. Peter P. Swire e pubblicato sul sito www.osu.edu/unit/law/swire1)

Sono stati recentemente pubblicati negli USA due studi che mirano a definire i costi legati all’introduzione di nuove disposizioni di legge in materia di privacy su Internet. Il primo si occupa della "mania da sondaggio" che secondo gli autori (Solveig Singleton, avvocato presso il Competitive Enterprise Institute, e Jim Harper di Privacilla.org) è particolarmente diffusa nel settore della privacy. I due studiosi contestano la validità di molti sondaggi di opinione e indagini condotte in questo campo, perché la privacy è un concetto di difficile definizione e tende ad essere confuso con altri concetti come lo spamming o la sicurezza in rete; inoltre, nei sondaggi non si terrebbe debito conto dei costi della legislazione sulla privacy, dei benefici indirettamente derivanti dal libero flusso delle informazioni e dei costi per il singolo contribuente legati all’eventuale istituzione di una nuova agenzia federale competente in materia.

Più "concreto" appare invece lo studio realizzato dall’American Enterprise Institute-Brookings Center ad opera di Robert Hahn, con il sostegno della Association for Competitive Technology. Secondo Hahn, l’approvazione di legislazione federale sulla privacy in Internet potrebbe costare alle imprese fino a 36 miliardi di dollari [circa 78.000 miliardi di lire] - il che vorrebbe dire il fallimento assicurato per molte imprese del settore tecnologico, ove già la situazione non è rosea. Per Hahn "occorre chiedersi due cose quando si parla di leggi: se una nuova legge servirà a placare le preoccupazioni di associazioni come EPIC [Electronic Privacy Information Center,  un’associazione no-profit che da anni si occupa di privacy negli USA e non solo], e, in tal caso, se questo risultato potrà essere ottenuto in modo economicamente vantaggioso".

Alle osservazioni di Hahn ha subito replicato EPIC attraverso Chris Hoofnagle, che ha sottolineato come "tutti i diritti abbiano conseguenze economiche per la società. Se il mercato dettasse legge, potremmo tranquillamente reintrodurre il lavoro minorile. Dobbiamo invece creare una società in cui il mercato funzioni e al tempo stesso riconosca i nostri valori". Il principio è che la privacy è un diritto fondamentale e deve essere sancito per legge, anche se ciò può comportare licenziamenti o fallimenti.

Lo studio di Hahn ha però trovato una critica più articolata nelle osservazioni del Prof. Peter P. Swire, uno dei maggiori esperti internazionali di privacy e a lungo consigliere del Presidente Clinton in materia di privacy. Secondo Swire, le conclusioni dello studio sono viziate da una serie di errori nell’analisi condotta ed i costi stimati sono eccessivi.

In primo luogo, nello studio non si tiene conto in misura adeguata di un punto fondamentale ai fini della stima dei costi: il termine di paragone. I costi legati all’introduzione di norme sulla privacy corrispondono alla differenza fra il comportamento delle imprese in assenza di normativa e il comportamento delle stesse imprese una volta che tale normativa fosse emanata. La stima dipende in misura essenziale dal termine di riferimento utilizzato per valutare i costi in questione: è chiaro che se le imprese (come sta avvenendo) hanno già adottato una serie di misure ed accorgimenti per tutelare la privacy (vuoi per accrescere la fiducia dei consumatori, vuoi per rispettare determinati standard esistenti al di fuori degli USA), non è possibile stimare i costi necessari per l’attuazione di disposizioni in materia come se si trattasse di qualcosa di assolutamente nuovo. Per citare l’espressione utilizzata da Swire, "è come stimare il costo della costruzione di una casa senza sottrarre il costo delle fondamenta e di un paio di muri che stanno già in piedi".

Soprattutto, comunque, i costi stimati sono eccessivi per quattro motivi fondamentali:

a) lo studio di Hahn non fa alcuna differenza fra siti grandi e piccoli, ipotizzando un costo di 100.000 dollari per un sito complesso e di grandi dimensioni (= con più di 500 dipendenti) che volesse mettersi in regola con ipotetiche norme sulla privacy. E’ irragionevole, tuttavia, ritenere che un sito di piccole dimensioni spenda 100.000 dollari per attuare disposizioni in materia di privacy.

b) Il numero di siti cui fa riferimento lo studio è pari a 360.000, ma in effetti nello stesso studio si riconosce che negli USA sono solo 94.000 i siti commerciali di "medie-grandi dimensioni". Gli altri 246.000 sono siti di piccole dimensioni, ai quali non è applicabile la stima di 100.000 dollari sopra indicata.

c) I criteri fissati nello studio per il funzionamento di un ipotetico sistema di tutela della privacy sono eccessivamente severi e non corrispondono a nessuna delle proposte di legge sinora avanzate negli USA (ad esempio, il sistema dovrebbe consentire sempre a tutti gli utenti di rintracciare tutti i destinatari dei loro dati personali online, e di accedere anche al contenuto completo delle informazioni trasferite a terzi).

d) La stima di 100.000 dollari per sito si riferisce alla creazione di un sistema complesso (secondo i criteri sopra indicati) totalmente ex novo; tuttavia, questa stessa stima è stata utilizzata come valore medio di riferimento per tutti i siti. In sostanza, per arrivare al totale di 36 miliardi di dollari, si è ipotizzato che ciascuno dei 360.000 siti (grandi e piccoli) spendesse 100.000 dollari per costruire ex novo un sistema del genere. E’ chiaro, però, che soprattutto i siti di medio-piccole dimensioni non chiederanno ad un programmatore di creare da zero un programma che garantisca la tutela della privacy, ma utilizzeranno pacchetti di software già disponibili ed elaborati da società di informatica. In sostanza, è irrealistico ritenere che il 360millesimo sito spenderà la stessa cifra del primo fra essi che metta in atto l’eventuale normativa sulla privacy.

In ultima analisi, e tenendo conto anche delle misure già adottate dalle imprese in questo campo pur in assenza di norme specifiche, si può ritenere che i costi effettivi legati all’implementazione di sistemi a tutela della privacy su Internet siano almeno di un ordine di grandezza inferiori rispetto a quelli indicati, e dunque non superino i 4 miliardi di dollari. Secondo Swire, la cifra reale è in effetti ancora più bassa.

(Newsletter 14-20 maggio 2001)

 

I consumatori Usa chiedono più privacy alle imprese
(dal comunicato stampa della Harris Interactive, società specializzata in sondaggi di opinione)

Il primo sondaggio su larga scala svolto negli USA dopo l’11 settembre mostra che i consumatori chiedono alle imprese di fare di più per tutelare la loro privacy. In particolare, i consumatori chiedono che ci sia una verifica indipendente delle prassi dichiarate dalle imprese per quanto riguarda la gestione dei dati personali. Dunque, non è vero che la privacy sia passata in secondo piano dinanzi ai timori suscitati dal terrorismo.

Questo è il risultato più importante del sondaggio che la Harris Interactive, specializzata nei sondaggi di opinione on-line, ha condotto nel mese di novembre 2001 per conto di Privacy & American Business, intervistando 1.529 adulti di età superiore a 18 anni. Il sondaggio, i cui risultati sono stati pubblicati lo scorso 20 febbraio, intendeva analizzare il punto di vista dei consumatori sulla gestione dei dati personali on-line e off-line da parte delle imprese. L’indagine è stata sponsorizzata anche dalla Ernst & Young e dall’American Institute of Certified Public Accountants, che volevano disporre di dati precisi ai fini della rispettiva attività di consulenza per le imprese.

Due consumatori su tre (62%) hanno dunque affermato che la garanzia di una verifica indipendente [ad esempio, da parte di organismi terzi, ndr.] del comportamento delle imprese in materia di privacy sarebbe il fattore più importante per aumentare la loro fiducia nelle transazioni commerciali. In effetti, l’84% ritiene che una verifica indipendente dovrebbe essere ormai obbligatoria per le imprese. Ben 9 persone su 10 hanno dichiarato che darebbero la preferenza alle imprese sottoposte ad una verifica indipendente, e addirittura il 58% consiglierebbe agli amici o ai familiari una società che veramente rispettasse le prassi dichiarate quanto alla gestione dei dati personali. Per altro verso, 8 consumatori su 10 (83%) interromperebbero ogni rapporto con un’impresa se venissero a sapere (ad esempio, attraverso articoli di stampa) che quell’impresa fa un uso scorretto dei dati sulla clientela.

Ma che cosa temono soprattutto i consumatori? Che la società di cui sono clienti fornisca i loro dati ad altre società senza autorizzazione (75%), che la sicurezza dei dati non sia garantita (70%) e che i propri dati siano rubati da qualche pirata informatico (69%). La richiesta di verifiche più stringenti ed efficaci si concentra dunque, in primo luogo, sull’esistenza di adeguate misure di sicurezza (90%), sulla garanzia che un’impresa non ceda a terzi dati personali in assenza di consenso o di una specifica norma di legge (84%), sulla possibilità di limitare gli accessi ai dati all’interno dell’impresa (84%), sulla garanzia che l’impresa si limiti effettivamente a raccogliere i dati personali dichiarati (84%) e rispetti gli impegni assunti nella gestione e nella diffusione delle informazioni (81%).

E’ chiaro, pertanto, che non basta segnalare l’esistenza di un codice di comportamento specifico nella gestione dei dati personali. Per ottenere la fiducia dei consumatori, come sottolineato dalla stessa Ernst & Young, le imprese dovranno anche dimostrare di rispettare nei fatti il codice di comportamento che hanno dichiarato di seguire. (Per maggiori dettagli si può consultare il sito www.harrisinteractive.com).

(Newsletter 18-24 febbraio 2002)

 

La privacy, priorità anche negli Usa. Allarme per spamming e cookies
(da un articolo di Sandra Swanson su InformationWeek.com del 27 marzo 2002 e da un articolo di Joanna Glasner su WiredNews del 2 aprile 2002)

Un sondaggio pubblicato a fine marzo dalla Progress & Freedom Foundation degli USA, che utilizza parte dei dati ottenuti attraverso un analogo sondaggio compiuto da Harris Interactive lo scorso dicembre (v. Newsletter 18-24 febbraio 2002), mostra che i siti Web raccolgono sempre meno informazioni sui consumatori e mostrano un maggiore rispetto per la loro privacy.

Tutto ciò risulta dalla considerevole riduzione nell’uso di cookies provenienti da soggetti terzi (altre aziende o società pubblicitarie): solo il 48% dei 395 siti web presi in esame (i più importanti, con almeno 39.000 contatti mensili specifici) ne fa uso, contro il 75% evidenziato da un’indagine della FTC (Federal Trade Commission) condotta nel maggio del 2000. Nel 93% dei casi, inoltre, i consumatori possono scegliere se comunicare a terzi i propri dati personali (opt-out), mentre nel 2000 questa percentuale non superava il 77%.

L’indagine di Harris Interactive aveva indicato che i tre quarti dei consumatori sono preoccupati per possibili abusi dei propri dati. Questa progressiva modifica nel comportamento delle imprese mostra che la pressione crescente esercitata dalla FTC e da numerose organizzazioni pro-privacy, nonché dall’esistenza di accordi specifici come il Safe Harbor (per le imprese che vogliono trasferire senza problemi dati personali dall’Europa agli USA), sta dando i propri frutti. Oltre ai rischi giudiziari legati ad un uso irrispettoso dei dati personali della clientela, le imprese sono particolarmente preoccupate, secondo numerosi esperti, dalla possibilità di un danno di immagine che minerebbe ancora di più la fiducia dei consumatori.

In questo senso va anche un’iniziativa promossa recentemente dalla FTC e dalle autorità giudiziarie di otto Stati USA, oltre che da quattro associazioni di consumatori del Canada, che intende reprimere l’invio di messaggi indesiderati di posta elettronica (spamming) e le frodi via Internet. Si tratta di un’iniziativa della durata di due anni che va sotto la denominazione di "International Netforce"; sinora ha permesso di istituire procedimenti giudiziari in 63 casi di truffa via Internet e di individuare oltre 500 soggetti ai quali è stata recapitata una diffida in quanto si tratterebbe di spammers che inviano, oltretutto, messaggi ingannevoli.

In particolare, si è tentato di verificare se rispondendo ai messaggi di posta indesiderata con l’invito a cancellare il proprio indirizzo o la propria registrazione dalla lista del mittente si ottiene soltanto l’invio di altri messaggi indesiderati. E’ emerso che, in realtà, i link che dovrebbero servire per ottenere la cancellazione ("unsubscribe me") spesso sono fittizi e non portano da nessuna parte.

Resta ancora molto da fare in questo campo, secondo il responsabile della FTC per l’area nord-occidentale degli USA, anche perché gli sforzi sinora compiuti non sembrano aver ridotto il volume di spam: dal gennaio del 1998, la stessa FTC ha ricevuto oltre 10 milioni di messaggi di spam all’indirizzo che i cittadini possono utilizzare per segnalare casi di spamming. E’ interessante il fatto che il picco delle segnalazioni si sia raggiunto lo scorso marzo, dopo una campagna informativa per sensibilizzare sul problema della posta indesiderata: 1 milione di segnalazioni relative a messaggi di spam sono arrivate alla FTC nel solo mese di marzo.
(Newsletter 8-14 aprile 2002)

 

Spamming e protezione dei dati. Uno studio della commissione UE

Alla luce degli sviluppi più recenti della società dell’informazione e dei rischi associati a tali sviluppi, la Commissione europea (Direzione Generale XV del Mercato Interno) ha deciso di affidare ad una società di consulenza (ARETE) la conduzione di uno studio relativo al fenomeno dei messaggi di posta elettronica contenenti comunicazioni commerciali indesiderate - noti comunemente come "spam". I risultati dello studio sono stati pubblicati alla fine del mese di gennaio 2001.

Lo studio comprende due parti distinte: una disamina dello stato dell’arte per quanto concerne le tecnologie alla base dello spamming (con particolare riferimento alla situazione esistente negli USA, che rappresentano in un certo senso la "patria" dello spamming), ed un’analisi delle strategie normative adottate in Europa; seguono alcune considerazioni conclusive e di indirizzo al fine di promuovere lo sviluppo del commercio elettronico in Europa tutelando i diritti riconosciuti agli internauti europei.

Un dato di partenza è il volume della spesa pubblicitaria relativa all’uso di tecniche di marketing diretto: negli USA, essa rappresenta ormai il 50% del totale. La popolarità di Internet quale veicolo pubblicitario è legata a tre fattori principali: ridotti costi della campagna pubblicitaria rispetto alle tecniche tradizionali (posta), tassi di rendimento dell’attività di marketing compresi fra il 5 e il 15% (contro lo 0.5-2% delle comunicazioni postali tradizionali), percentuale di risposte molto più elevata rispetto ai banner pubblicitari (18%, contro lo 0.65%).

Rispetto a questo quadro generale, va detto però che negli USA il fenomeno spamming è in declino; sono sempre più numerosi, infatti, gli operatori che preferiscono ricorrere ad attività di marketing più corrette anche in termini di protezione dei dati. Fra i fattori responsabili (provvedimenti anti-abusi adottati dai fornitori di servizi Internet, legislazione più restrittiva anche negli USA, interventi da parte delle associazioni di categoria quali la AIM - Association of Industrial Marketing), sta assumendo particolare rilevanza quella che gli autori dello studio definiscono la "contro-cultura dell’e-marketing", basata sul concetto del "marketing su autorizzazione". Si tratta in pratica di istituire canali di comunicazione con i consumatori su base volontaria, passando per gradi da un rapporto fondato sull’interesse ad un rapporto basato sulla fiducia. Con il crescere della fiducia, il consumatore viene convinto ad autorizzare una gamma sempre più ampia di attività di marketing: raccolta di dati sulle abitudini di vita, su hobbies e interessi, invio di messaggi pubblicitari relativi a nuovi prodotti e servizi, ecc.. Questo tipo di marketing basato su un approccio di "opt-in" (ossia, sulla possibilità per il cliente di scegliere se aderire o meno) è ormai la parola d’ordine fra gli operatori del settore negli USA.

Naturalmente ciò non significa che lo spamming sia scomparso, come dimostra il numero considerevole di prodotti e servizi finalizzati a facilitare queste attività. Si va dai programmi informatici (spamware) che raccolgono sistematicamente indirizzi sul Web o provvedono all’invio di grossi quantitativi di messaggi a specifiche mailing lists, fino a società che organizzano vere e proprie campagne di spamming oppure svolgono attività di intermediazione per la vendita di indirizzari. Si pensi, a titolo di esempio, che le varie opzioni di offerta di pacchetti di indirizzi prevedono la possibilità di acquistare fino a 1.000 indirizzi e-mail al costo di 5 dollari, ovvero di 20 dollari se il cliente desidera utilizzare l’indirizzo postale completo, oppure 1.000.000 di indirizzi alla settimana al costo di 39.95 dollari al mese. Si può legittimamente dubitare sia della qualità di questi indirizzari sia della loro validità in termini di rispetto delle prescrizioni a tutela degli interessati.

E’ comunque ormai un dato di fatto che il marketing via e-mail costituica il mercato più promettente, in termini sia finanziari sia di tecnologia. E l’approccio basato sull’opt-in, come si è detto, incontra favore crescente. Tuttavia, si pongono alcuni interrogativi per quanto riguarda la qualità del consenso prestato e la possibilità di fraintendimenti o abusi di tale consenso. In particolare, esiste il rischio che in futuro le società pubblicitarie tendano ad interpretare il requisito del consenso in modo eccessivamente ampio. Ad esempio, cliccando sulla casella OK per inserire una determinata pagina Web nella cartella "Preferiti" (quello che in inglese si chiama "bookmarking") potrebbe avvenire che il cliente automaticamente dia il consenso a ricevere pubblicità via e-mail sulla base di condizioni di contratto inserite in qualche pagina ben nascosta nel sito. E inoltre, è legittimo bombardare con parecchi messaggi pubblicitari alla settimana chi una volta, in via occasionale, ha acquistato un prodotto online? Eppure questa è la politica seguita, ad esempio, da Amazon, Barnes & Noble ed altri soggetti. Per non parlare poi di alcuni siti ove la casella da barrare per segnalare il consenso a ricevere e-mail commerciali appare già barrata - il che contravviene ai principi di trasparenza e lealtà fissati dalla direttiva 95/46 sulla protezione dei dati personali.

Il requisito del consenso è centrale, ed è stato riaffermato di recente anche nella Proposta di Direttiva della Commissione europea sul trattamento di dati personali e la tutela della privacy nel settore delle comunicazioni elettroniche (12 luglio 2000). Tanto più che, se veramente gli operatori avranno presto a disposizione sistemi che consentono di inviare 100 milioni di e-mail commerciali al giorno, e supponendo che siano 200 le imprese in grado di dotarsi di questi strumenti, i 300 milioni di utenti Internet potranno ricevere mediamente oltre 60 e-mail pubblicitarie al giorno. E’ stato stimato che ciò comporterebbe un costo medio di connessione per utente di oltre 30 euro/anno - e su scala mondiale, nell’ipotesi che entro breve la comunità online raggiunga i 400 milioni di persone, i costi complessivi legati allo scaricamento di messaggi pubblicitari con le attuali tecnologie si possono stimare per difetto nell’ordine dei 10 miliardi di euro (e stiamo parlando solo dei costi sostenuti da chi naviga su Internet).

Passando ad un’analisi sul piano normativo, anche in questo ambito i due approcci che si fronteggiano sono rispettivamente basati sull’opt-out e sull’opt-in. Nel primo caso, chi non vuole ricevere e-mail commerciali indesiderate deve avere la possibilità di far registrare questa sua preferenza; fra i sostenitori dell’opt-out vi è chi sostiene che questo diritto dovrebbe essere esercitabile solo nei confronti del soggetto che ha inviato il messaggio indesiderato, mentre altri sono a favore di un sistema basato su elenchi nazionali o internazionali di opt-out (le cosiddette "liste Robinson") in cui chiunque può farsi inserire, indipendentemente dal ricevimento di e-mail indesiderate. In tal caso le società di marketing diretto dovrebbero consultare periodicamente questi elenchi per rispettare i desiderata dei singoli clienti.

Nel secondo caso, le condizioni per l’invio di messaggi indesiderati sono legate alla correttezza delle modalità di raccolta degli indirizzi di e-mail. L’invio di e-mail commerciali indesiderate dovrebbe essere possibile solo qualora il destinatario abbia precedentemente acconsentito a ricevere tali messaggi.

A livello comunitario, sono almeno quattro gli strumenti applicabili: la direttiva generale sulla protezione dei dati (95/46/CE), la direttiva sulle telecomunicazioni (97/66/CE), la direttiva sulle vendite a distanza (97/7/CE) e la direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE). Il punto è che mentre le prime due (e in parte anche la terza) adottano un approccio sostanzialmente basato sull’opt-in, la direttiva sul commercio elettronico sembra invece favorire un approccio di tipo opt-out - pur facendo salvi i diritti riconosciuti nella direttiva 97/7 e nella 97/66. In essa si dice infatti (art. 7(2) ) che "gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per far sì che i prestatori che inviano per posta elettronica comunicazioni commerciali non sollecitate consultino regolarmente e rispettino i registri negativi in cui possono iscriversi le persone fisiche che non desiderano ricevere tali comunicazioni commerciali". In sostanza, secondo gli estensori dello studio, si è creata un’ambiguità di fondo che non facilita l’individuazione di condotte chiare e univoche da parte delle imprese che operano in questo settore. Bisogna sottolineare, allora, che la direttiva 97/7 sulle vendite a distanza e la direttiva sul commercio elettronico riguardano unicamente la legittimità dell’invio di comunicazioni commerciali indesiderate, e non la legittimità delle modalità di raccolta degli indirizzi di posta elettronica che servono per inviare tali comunicazioni - essendo questo un punto regolato esclusivamente dalla direttiva 95/46.

Per eliminare queste ambiguità occorre che il dibattito si sposti dalla correttezza dell’invio di messaggi pubblicitari alla correttezza della raccolta di dati. Esplicitando le circostanze in cui è possibile raccogliere legittimamente dati personali (come l’indirizzo di e-mail) l’operatore commerciale ed il destinatario dell’e-mail possono scegliere in modo trasparente la natura e gli sviluppi futuri del rapporto instauratosi. Anche se nessuna delle direttive impone il ricorso ad un sistema di opt-in per i contatti diretti fra imprese e clienti, appare naturale estendere al marketing diretto via e-mail le stesse regole valide per il marketing diretto effettuato attraverso dispositivi automatici di chiamata o fax - poiché in entrambi i casi si tratta di attività di natura invasiva che non possono essere interrotte dai destinatari.

 

Quali sono dunque le conclusioni dello Studio?

a) Nel complesso, l’approccio basato sull’opt-in appare quello più adatto alle esigenze di Internet: consente la vendita legittima di database, favorisce la personalizzazione dei rapporti fra imprese e clienti online, ed è il sistema preferito dagli stessi internauti (anche in base all’esperienza maturata negli USA). Inoltre, esso garantisce che i dati non siano utilizzati senza il consenso dell’interessato - mentre in un sistema basato sull’opt-out non si capisce come una società di pubblicità online possa accertarsi che un determinato destinatario non si sia già registrato in un elenco di opt-out. Del resto, la scelta di un approccio basato sull’opt-in è anche quella contenuta nella Proposta di direttiva relativa al trattamento di dati personali e alla tutela della privacy nel settore delle comunicazioni elettroniche (del 12 luglio 2000): con l’obiettivo di garantire la neutralità tecnologica dell’infrastruttura normativa in materia di protezione dati a livello comunitario, essa offre l’opportunità di armonizzare la legislazione nazionale (che segue binari in parte divergenti già oggi) e di definire un approccio comune basato sul requisito del consenso preventivo.

b) Occorre maggiore chiarezza sulle procedure di prestazione del consenso online. La definizione di "consenso" nella direttiva-quadro è molto rigida, e comporta la certezza dell’indicazione della volontà del soggetto sulla base di un’informativa corretta e completa. Se questo tipo di requisiti saranno rispettati ai fini della raccolta di dati sul Web, si potranno registrare i dati personali unitamente alle condizioni che l’interessato ha fissato per il loro trattamento. Ciò favorisce automaticamente la correttezza della raccolta di dati e permette di utilizzarli immediatamente a scopi commerciali nella piena certezza del rispetto dei diritti della persona.

c) La trasparenza inerente al meccanismo del consenso preventivo deve quindi essere estesa a tutti gli strumenti utilizzati per questo tipo di comunicazioni. Tutti i soggetti interessati devono comprendere che le prospettive di crescita del commercio elettronico subiranno un grave danno se i possibili acquirenti online dovessero dubitare dell’onestà e della lealtà di chi commercia sul Web.

(Newsletter 12 - 18 febbraio 2001)

 
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