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Copyright vs. copyleft

Superato lo scoglio tecnico, questo capitolo (ed anche il successivo) hanno lo scopo di entrare nel dettaglio di cosa è possibile fare con lo strumento che abbiamo acquisito.
Partiremo con una rapida analisi del tema della proprietà intellettuale, cercando di fare un po' di chiarezza nel polverone sollevato sull'argomento dalle imprese transnazionali per poi analizzare gli effetti che ha sull'economia il paradigma del software libero.

Storia del copyright e dei brevetti

Ciò che segue è larga parte preso in prestito da un discorso che Richard Stallman ha tenuto a Bologna, in occasione dell'Hackmeeting 2002 e da uno scritto introduttivo sull'argomento di Simone Piccardi: ``Proprietà intellettuale'' in Europa: libertà e interessi economici7.1).
Aprirò con una citazione da quest'ultimo:
In realtà parlare di ``proprietà intellettuale'' è già di per sè fuorviante, perché tende a nascondere la differenza sostanziale che c'è fra un oggetto materiale (che è quello a cui ci viene naturale di pensare quando si parla di proprietà) e le idee o le informazioni. Queste ultime possono essere scambiate e copiate senza sforzo, e la loro distribuzione ad altri non diminuisce in alcun modo la nostra capacità di fruirne. Questo non è vero per gli oggetti materiali: in uno scambio di idee o informazioni, alla fine tutti avranno più idee e informazioni, mentre il cedere un oggetto materiale comporta necessariamente il privarsene.
Pensare che si possa possedere una idea così come si possiede un piatto di pastasciutta o un pezzo di terra è ingannevole, e porta a conseguenze nefaste per cui nel nome della ``proprietà intellettuale'' si cercano di imporre delle restrizioni assurde come il divieto di leggere ad alta voce un e-book, o la persecuzione di programmi che consentano di vedere su GNU/Linux un DVD regolarmente acquistato.
Inoltre di per sè la ``proprietà intellettuale'' non esiste: è un tentativo di coprire con un solo nome normative legali profondamente diverse come il diritto d'autore, i brevetti e i marchi registrati che fra loro hanno più differenze che caratteristiche comuni, cercando di mescolare problematiche che dovrebbero essere mantenute ben separate.

Come è nato il copyright e a cosa doveva servire

Quando sentiamo parlare di copyright, ultimamente, questo ci viene presentato quasi sempre come un concetto immutabile, legato a doppio filo con la sfera dell'etica. In pratica l'unico strumento adatto a garantire la sopravvivenza degli autori di opere artistiche o intellettuali, che prima della sua invenzione erano costretti a vivere all'ombra di qualche magnate o a perire di stenti.
La storia, invece, mostra che le regole che le comunità si sono date per regolare la copia di libri o altre creazioni intellettuali sono cambiate in maniera radicale lungo i secoli, e sono correlate non tanto con l'etica quanto con la tecnologia.
Nell'antichità la tecnologia della copia si basava sul lavoro manuale. Copiare un libro poteva richiedere quasi lo stesso tempo che scriverlo ex-novo e sulla copia non era possibile fare praticamente alcuna economia di scala (forse un copista esperto era in grado di produrre più copie di un principiante, ma il vantaggio era molto piccolo).
Probabilmente per questo motivo e per la scarsità delle persone in grado di leggere e scrivere non esisteva, a quel tempo, lo stesso confine netto tra autore e copista che conosciamo oggi.
Scrivere commentari (copie inframmezzate da parti creative, un po' come sto facendo io ora) aveva praticamente la stessa dignità che scrivere un'opera originale, e molti di questi commentari raggiungevano una fama addiritura superiore a quella dei lavori originali, al punto da essere sopravvissuti nel tempo. A quei tempi, dunque, l'idea del copyright semplicemente non esisteva: copiare libri era considerato un gesto altamente positivo perché aumentava la diffusione e la probabilità di sopravvivenza del testo.
Le cose cambiarono con l'invenzione della stampa. La stampa non cambiò solo la tecnologia sottesa alla copia, ma rese necessario stabilire un diverso contratto sociale. Infatti la stampa era in grado di produrre, in quantità ineguagliabili a mano, copie identiche, le apparecchiature che rendevano possibile questa cosa erano molto costose, ma rendevano possibili guadagni grazie all'economia di scala. Il primo effetto di questa rivoluzione fu quello di ridurre drasticamente il numero dei soggetti che producevano copie: la copia passava da un sistema ``distribuito'' a uno ``accentrato''.
Allo stesso tempo, però, la copia manuale non scomparì del tutto: facevano eccezione infatti i grandi signori che ancora commissionavano preziosi manoscritti e alcuni tra i più poveri, che continuavano a copiare a mano perché non potevano permettersi il costo del libro stampato.
Le prime legislazioni che regolavano il copyright non cercavano in alcun modo di vietare questi comportamenti, ma si concentravano sull'industria della copia. Il copyright, quindi, era una legislazione meramente industriale, perfettamente compatibile con il quadro tecnologico, che non limitava ciò che i lettori potevano fare con le copie che acquistavano e che, a fronte della rinuncia a un diritto di fatto non esercitabile (quello di fare copie in grandi quantità) assicurava alla comunità una disponibilità di libri fino ad allora impensabile. Per di più era facile da far rispettare perché riguardava pochi grandi attori, facili da individuare ed eventualmente da portare in tribunale: non necessitava dure punizioni per sottomettere i lettori a tollerarla e obbedirvi.
Col passare del tempo il costo delle copie stampate diminuisce fino a rendere i libri stampati economici al punto che praticamente chiunque può permetterseli. Dal 1800 in avanti, l'idea di autoprodurre copie scompare completamente.
Naturalmente, però, l'accentramento del potere di copia nelle mani di pochi non mancò di causare problemi per la libertà di espressione: infatti, sotto la corona Inglese, per poter stampare libri bisognava ottenere un permesso speciale dal governo. Probabilmente anche per questo motivo nella costituzione americana la copia viene definita come un diritto naturale della gente, mentre il copyright è considerato una ``restrizione artificiale'' della copia che viene tollerata per la necessità di promuovere il progresso. Infatti la proposta iniziale di concedere agli autori il monopolio della copia dei propri scritti viene rigettata.
Può sembrare una questione accademica chiedersi quale debba essere lo scopo della legislazione sul copyright, ma è la risposta a questa domanda che ci permette di capire quando la legislazione va cambiata e perché.
Da più di un decennio, ormai, è in atto una campagna che tenta di porre il problema in termini sbagliati, diffondendo l'idea che il copyright esista per difendere il diritto naturale dei proprietari del copyright. Lo stesso termine ``pirata'', che viene abusato dalle grosse imprese transnazionali per indicare chi copia abusivamente, cerca surrettiziamente di far passare l'idea che copiare sia l'equivalente morale di attaccare navi e passare a fil di spada gli equipaggi.
Comprendere l'origine del copyright, invece, dovrebbe permetterci di contestualizzare tale normativa, evitando la nascita di mostri come il DMCA e la EUCD che prevedono una drastica riduzione delle libertà personali e un massiccio apparato repressivo per difendere gli interessi di pochi contro la libertà di molti.
Infatti con l'avvento dell'era delle reti informatiche creare copie identiche è divenuto semplice, rapido e alla portata di tutti. Questo fa pensare il contratto sociale dovrebbe essere cambiato in modo da permettere alla gente di decidere quanto del suo potere di copiare vuole cedere ai grandi editori, per avere il vantaggio di non rinunciare alla disponibilità dei libri stampati (qualunque cosa ne pensiate, la prassi mostra che sono tutt'altro che in decadenza). Naturalmente tutto fa pensare che il potere in mano agli editori andrebbe ristretto e non allargato come invece tentano di fare le normative approvate negli Stati Uniti e, purtroppo, in via di recepimento anche in Europa.
A sostegno di questa considerazione ci sono, come minimo, i costi di ``mantenimento'' di tale normativa. Per poter far rispettare una legge tanto restrittiva sui diritti personali, infatti, è necessario un gigantesco e costossissimo apparato di controllo e repressione, il cui costo ricade nuovamente sulla comunità. Inoltre tale apparato, per essere realmente efficiente, non dovrebbe avere alcuna restrizione nell'accesso a qualsiasi dato privato (contenuto del nostro hard disk, acquisti che abbiamo fatto con la carta di credito) altrimenti non sarebbe in grado di accertare l'avvenuta violazione della legge sul copyright.
È esattamente in questo quadro che si inserisce il progetto TCPA/Palladium, che in questa luce appare null'altro che il mezzo tecnico per minimizzare l'enorme impatto economico di questo nuovo sistema di controllo. Infatti i computer con tecnologia Palladium sarebbero privati alla fonte della possibilità di produrre copie, attraverso il loro chip poliziotto. Se questa risposta può ridurre la cruenza delle misure repressive (rendendo di fatto impossibile commettere il ``reato'') non riduce di fatto la gravità della violazione dei diritti.
Questo senza parlare del fatto che, una volta garantita la possibilità di perseguire qualunque chi copia per qualsiasi scopo e in qualunque quantità, nulla potrebbe trattenere le aziende detentrici del copyright dall'alzare il costo delle loro copie, con effetti imprevedibili sull'economia (quale piccola azienda che lavora con software proprietario sarebbe davvero in grado di pagare le licenze di tutti i software che utilizza)?
Oggi come oggi la sopravvivenza del software libero (e la sua conquista di nuovi utenti) ci sembrano le uniche risposte convincenti a questi interrogativi.

Come sono nati i brevetti e a cosa dovevano servire

Un ragionamento analogo a quello sul copyright mostra come il tentativo di applicare la legislazione sui brevetti al software sia prima di tutto erroneo dal punto di vista concettuale. La legislazione sui brevetti, infatti, nasce per tutelare gli investimenti delle imprese nel settore tecnologico, garantegli un monopolio della durata variabile da cinque a vent'anni sull'invenzione brevettata, a seconda dei paesi e del tipo di brevetto .
L'idea di fondo della normativa è dunque quella di incentivare l'investimento delle ditte nella ricerca tecnologica (farmaceutica, biotecnologica, ecc...) permettendo loro un guadagno certo dallo sfruttamento industriale del brevetto.
Questo tipo di legislazione, esattamente come quella sul copyright, si basa su alcuni assunti impliciti che erano verificati nel momento storico in cui fu inventata e per i campi a cui la si voleva applicare, ma che non è detto che valgano oggi e in qualsiasi campo (in particolare in quello del software):7.2 Risulta evidente che i primi due presupposti non si possono applicare al software e, personalmente, trovo che definire ``sfruttamento industriale'' la copia a costo zero di un software sia quanto meno curioso, per non dire altro.
Oltre a questo c'è da considerare che l'esperienza insegna che il brevetto può essere un freno all'innovazione in almeno due casi: Vista poi la natura fondamentalmente volontaria e no profit dello sviluppo di gran parte del software libero resta evidente che una legislazione dei brevetti applicata al software ne garantirebbe la morte immediata.
Per impedire che questo avvenga può essere utile partecipare alla campagna per un'Europa senza brevetti: http://petition.eurolinux.org/index_html, spedendo una mail dal sito in questione.
L'unica altra strada percorribile è che infine si decida di escludere esplicitamente dalla legislazione il software libero, garantendone l'immunità dagli attacchi legali.

Alcune ricadute pratiche: OGM e farmaci

Alla luce di queste considerazioni storiche sui brevetti risulta evidente la motivazione che spinge grosse imprese transnazionali come Novartis, con interessi in campi apparentemente molto distanti come la ``salute'' e la ``agricoltura sostenibile attraverso le nuove tecnologie'' (leggi biochimica, sementi, farmaci, genetica), a spendere miliardi di dollari nella ricerca sugli OGM. Indipendentemente dai vantaggi agricoli che questi prodotti riusciranno a dare (sui quali esistono studi molto contrastanti), la vera fonte di guadagno saranno i diritti d'autore (royalties) che ogni contadino sarà costretto a pagare per poter utilizzare questi semi, una volta che tali brevetti siano permessi.
In questo modo, infatti, si permetterebbe l'appropriazione di fatto, da parte delle grandi imprese transnazionali, del patrimonio agricolo che fino a oggi è stato di proprietà dei contadini; con effetti particolarmente drammatici nel Sud del mondo. Emblematico, in questo senso, è stato il caso del riso basmati indiano brevettato dalla Monsanto o, per restare a casa nostra, del clamoroso tentativo da parte di Nestlé, di appropriarsi del celeberrimo pesto alla Genovese7.3. Questa impostazione, ovviamente, genera grossi problemi di sicurezza per la popolazione in quanto queste ditte, pur di potersi assicurare questo redditizio monopolio, sono disposte a correre (o, meglio, a farci correre) qualsiasi rischio. Nonostante il buon successo della ``resistenza'' europea a questi nuovi prodotti, probabilmente gli argomenti delle ONG e degli oppositori sono ancora deboli. Infatti, piuttosto che affermare la dannosità degli OGM, probabilmente sarebbe più proficuo concentrarsi sulla loro brevettabilità, in quanto il venir meno di questa poderosa spinta economica sicuramente modificherebbe la strategia delle grosse aziende, improntandola verso una più razionale cautela, se non altro legata al rischio d'impresa: chi si accollerebbe il rischio di dover pagare i danni per aver prodotto un OGM tossico se non potesse contare sugli enormi guadagni che gli procura il brevetto?
Analogo ragionamento vale per il campo farmaceutico dove molte ricerche hanno dimostrato che gli investimenti delle grandi aziende si concentrano ormai da anni sulla produzione di farmaci non innovativi volti alla cura dei piccoli disagi dei supernutriti abitanti del Nord del mondo e non alla ricerca nel campo dei farmaci salva-vita per le terribili epidemie che colpiscono il Sud del mondo. In questo caso l'appiglio potrebbe essere l'innovatività, che potrebbe essere tutelata imponendo la decadenza di tutti i brevetti di una ditta nel caso in cui questa non produca almeno un 20% di brevetti innovativi nel campo dei farmaci salva-vita.

Dal progetto GNU alla GNU Economy

Fino a qui abbiamo visto che il movimento per il software libero ha prodotto (almeno) un sistema operativo che sta mettendo in seria discussione il monopolio del mondo dell'informatica. In questo paragrafo vedremo insieme da dove è partita la storia e, soprattutto, come GNU/Linux non sia l'unico prodotto del movimento per il software libero: si parla ormai sempre più spesso di ``economia indotta dal software libero'' o, scherzosamente, di GNU Economy.


Breve storia del progetto GNU e della Free Software Foundation

La storia comincia nel laboratorio di Intelligenza Artificiale del MIT a Boston dove, dagli anni '60, esiste e prospera una comunità di hacker dedita allo scambio e alla scrittura di software. In quegli anni il Digital PDP-10 è una delle architetture del momento, come oggi può essere il Pentium IV. A quella scuola si forma il giovane Richard Stallman, detto RMS, che avrà un ruolo importante in tutta la storia.
All'inizio degli anni '80 questo tipo di calcolatori viene reso obsoleto dall'introduzione sul mercato delle nuove architetture VAX e 68020 (il processore che sarà alla base dei PC Apple). Su queste nuove architetture, però, girano solo sistemi operativi proprietari, che richiedono all'utilizzatore di firmare un accordo di non diffusione (NDA, Non Disclosure Agreement), che lo impegna a non divulgare alcuna informazione sul sistema operativo in questione.
Stallman si rende immediatamente conto del fatto che questa nuova situazione implica la fine della comunità degli sviluppatori e fa una scelta drastica: invece che accettare di proseguire il suo lavoro al MIT accettando i dettami delle ditte produttrici di software proprietario, abbandona il MIT e si pone un obiettivo ambizioso; quello di scrivere da zero un sistema operativo libero che sia: i) portabile (eseguibile su molte architetture, per evitare di doverlo riscrivere una volta che fossero cambiate le architetture in commercio); ii) compatibile con Unix (perché Unix era uno dei maggiori sistemi operativi disponibili a quel tempo e RMS aveva la speranza che la compatibilità avrebbe invogliato gli utenti di Unix a passare al nuovo sistema operativo).
Seguendo una vecchia tradizione hacker RMS battezza il suo nuovo progetto con l'acronimo GNU, che significa ``GNU's Not Unix'' (GNU non è Unix). È il 1984 e la Apple sta lanciando il suo nuovo PC: il Macintosh.
Qualche anno dopo scriverà:
L'idea che la concezione sociale di software proprietario -cioè il sistema che impone che il software non possa essere condiviso o modificato- sia antisociale, contraria all'etica, semplicemente sbagliata, può apparire sorprendente a qualche lettore. Ma che altro possiamo dire di un sistema che si basa sul dividere utenti e lasciarli senza aiuto? (...)

Quando i produttori di software parlano di ``difendere i propri diritti'' o di ``fermare la pirateria'', quello che dicono è in realtà secondario. Il vero messaggio in quelle affermazioni sta nelle assunzioni inespresse, che essi danno per scontate: (...) i) che le aziende produttrici di software abbiano il diritto naturale indiscutibile di proprietà sul software; ii) che la sola cosa importante del software sia il lavoro che consente di fare -vale a dire che noi utenti non dobbiamo preoccuparci del tipo di società in cui ci è permesso vivere; iii) che non avremmo software utilizzabile (o meglio, che non potremmo mai avere un programma per fare questo o quell'altro particolare lavoro) se non riconoscessimo ai produttori il controllo sugli utenti di quel programmi. Questa assunzione avrebbe potuto sembrare plausibile, prima che il movimento del software libero dimostrasse che possiamo scrivere quantità di programmi utili senza bisogno di metterci dei catenacci.
Insieme al progetto nascono alcuni dei primi scritti filosofici di Stallman come ``The GNU Manifesto'' e la definizione delle quattro libertà.
Scrivere un sistema operativo è un'impresa imponente e RMS, ben conscio del problema, incomincia scrivendo un editor che gli servirà per scrivere più rapidamente il codice dei suoi programmi: è la nascita di Emacs. Nel 1985, dopo un anno di lavoro, viene rilasciata la prima versione che riscuote un discreto successo. Stallman decide di renderla disponibile via computer, ma contemporaneamente di chiedere un contributo di 150 per le copie fisiche che distribuisce agli interessati. Nasce così il primo prototipo di ``ditta'' per la distribuzione di software libero.
Il successo del progetto e la qualità del software prodotto tengono impegnato Stallman e i primi pionieri del progetto GNU per molto tempo per aiutare i moltissimi utenti che utilizzano i primi programmi di software libero sui loro sistemi Unix proprietari. Molti cominciano a sostituire il compilatore ufficiale della casa con quello che Stallman ha scritto nel frattempo: il GCC (GNU C Compiler).


Il permesso d'autore (copyleft) e la GNU GPL

A questo punto del progetto emerge l'esigenza di trovare dei termini di distribuzione che evitassero che il software GNU venga trasformato in software proprietario. La risposta a questa esigenza viene chiamata permesso d'autore o copyleft (altro gioco di parole molto hacker).
Il permesso d'autore (copyleft) usa le leggi sul diritto d'autore (copyright), ma le capovolge per ottenere lo scopo opposto: invece che un metodo per privatizzare il software, diventa infatti un mezzo per mantenerlo libero. Il succo dell'idea consiste nel dare a chiunque le 4 libertà, ma senza dare il permesso di aggiungere restrizioni. In tal modo, le libertà essenziali che definiscono il software libero diventano diritti inalienabili.
perché il copyleft sia efficace, anche le versioni modificate devono essere libere: in pratica diciamo al programmatore ``se vuoi far parte della comunità sei il benvenuto, puoi fare tutto quello che vuoi con il software libero, tranne che appropriartene per il tuo guadagno''. Infatti realizzare una versione personale di un software e tenerla per sè non è vietato dal copyleft. È vietato redistribuirla con licenze che non siano copyleft.
La specifica implementazione di permesso d'autore che viene utilizzata per la maggior parte del software GNU è la GNU General Public License (licenza pubblica generica GNU), abbreviata in GNU GPL.


La Free Software Foundation http://www.fsf.org

Man mano che l'interesse per Emacs aumenta, altre persone si uniscono al progetto GNU, e decidono di cercare nuovi finanziamenti. Così nel 1985 viene fondata la Free Software Foundation (Fondazione per il Software Libero), una organizzazione senza fini di lucro per lo sviluppo di software libero.
La FSF accetta donazioni, ma gran parte delle sue entrate è sempre stata costituita dalle vendite: copie di software libero e servizi correlati. Oggi vende CD-ROM di codice sorgente, CD-ROM di programmi compilati, manuali stampati professionalmente (tutti con libertà di ridistribuzione e modifica), e distribuzioni Deluxe (nelle quali compiliamo l'intera scelta di software per una piattaforma a richiesta).
I dipendenti della Free Software Foundation hanno scritto e curato la manutenzione di diversi pacchetti GNU. Fra questi spiccano la libreria C e la shell. La libreria C di GNU è utilizzata da ogni programma che gira su sistemi GNU/Linux per comunicare con Linux. È stata sviluppata da un membro della della squadra della Free Software Foundation, Roland McGrath. La shell usata sulla maggior parte dei sistemi GNU/Linux è Bash, la Bourne Again Shell, che è stata sviluppata da Brian Fox, dipendente della FSF. Questi programmi sono stati finanziati dalla FSF perché il progetto GNU non riguardava solo strumenti di lavoro o un ambiente di sviluppo: l'obiettivo era un sistema operativo completo, e questi programmi erano necessari per raggiungere quell'obiettivo.

La Free Software Foundation Europe http://www.fsfeurope.org

L'ultima nata della cucciolata delle fondazioni è la Free Software Foundation Europe. Nata nel 2001 come organizzazione consociata di Free Software Foundation (FSF) negli Stati Uniti per occuparsi di tutti gli aspetti del Software Libero in Europa. Sul sito possiamo leggere:
Molti fattori hanno reso necessario questo passo: il software libero ha cessato di essere un fenomeno Americano, l'Europa ha una delle più forti comunità di sviluppatori di Software Libero e molti progetti importanti del passato recente hanno qui le loro origini. Secondariamente, la percezione dominante che il software sia puramente una proprietà economica, che è il motivo per cui è trattato in questo modo dalla politica e dalla stampa.
Ma il software già ora trascende la vita di ogni giorno in maniera crescente e diventa un fattore decisionale. Come altre trasformazioni nel passato dell'umanità, il software si sta trasformando da proprietà economica a culturale con una presenza crescente nella vita di tutti i giorni. E` essenziale per il futuro dell'umanità che il software come proprietà culturale rimanga accessibile a chiunque e sia preservato nelle biblioteche come qualsiasi altra conoscenza. Per ottenere tutto ciò, bisogna stabilire un nuovo modo di pensare tra i dirigenti della popolazione, i politici. Ispirare questo nuovo modo di pensare è un compito fondamentale di FSF Europe.

GNU Economy

Il software libero non è necessariamente gratuito. Georg Greve, giovane presidente della neonata Free Software Foundation Europe, ha molto a cuore la definizione di ``Commercial Free Software'' ovvero ``Software Libero Commerciale''.
Gran parte dei suoi sforzi dell'ultimo anno, infatti, sono stati spesi nel tentativo di spiegare alle ditte europee come potessero trarre grande beneficio dall'utilizzo del software libero. Argomento che sembra convincere un numero sempre crescente di aziende, visto il successo strepitoso di un mondo intero di piccole ditte di consulenza che offrono servizi nel campo del software libero.
I motivi sono moltissimi: si parte da un minore costo di mantenimento dei sistemi basati su software libero
(cfr. http://www.suffritti.it/informatica/comparazione_TCO_win_linux.htm), passando dalla libertà del codice sorgente che permette al cliente di cambiare consulente in qualsiasi momento per arrivare alla sicurezza del proprio investimento, garantita dal fatto che il software libero è modificabile per far fronte a nuove esigenze, senza bisogno di riscritture totali.
Al momento non esistono ancora studi precisi sul funzionamento dell'economia indotta dal software libero (ci stiamo lavorando!) ma, parlando coi diretti interessati, emerge la convinzione che le ditte che godono di maggiore salute siano quelle piccole che riescono a garantire un ottimo servizio al cliente finale e condizioni economiche decisamente al di sopra della media del settore per le persone che ci lavorano. Al crescere delle dimensioni aumentano i problemi e, sovente, cala la qualità. Per usare uno slogan degli anni '80, quindi, ``piccolo è bello''.
Oltre a questa considerazione il modello che emerge dalla licenza GNU GPL è quello di una grandissima libertà per l'utente finale, che acquisisce -come abbiamo visto- un controllo reale sul software che utilizza.
Queste caratteristiche, unite al discorso iniziale sul consumo critico in campo informatico, portano a pensare che il software libero potrebbe diventare la ``quarta gamba'', insieme al commercio equo, alla finanza etica e all'agricoltura biologica, di un progetto innovativo di economia solidale: un'economia che metta al centro valori come il rispetto dei diritti di lavoratori e consumatori, e il piacere per il lavoro ben fatto.
Naturalmente il semplice fatto di produrre software libero non è di per se garanzia di adesione a questi principi, così come è stato in passato per l'agricoltura biologica, rovinata dall'ingresso sul mercato delle solite grosse ditte industriali. Il lavoro da fare, in questo campo, è ancora molto: non siamo che all'alba.


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Stefano Barale 2003-07-03